Semiotica del rifiuto


Oggi la materia non sarà prettamente letteraria, poetica, ma più linguistica. Non dico “tecnica”, forse semiotica, ma prometto farò di tutto per essere rapido ed indolore.

Tornato dall’Inghilterra, dove ho vissuto quattro mesi, ho avuto modo di ragionare su quanto mi ha colpito e che mi continuo a grattare con urgenza.

Non so voi, ma il problema dei rifiuti, dello spreco di cibo sono uno dei fulcri su cui il mondo dovrà cambiare presto segno.

A tonnellate ne ho visti, di alimenti buttati e bistrattati, dal ristorante dove lavoravo alla piazza dove si mangiava un rapido pranzo.

Dove affonda le radici il problema? E’ mentalità, ignoranza, superstizione, comodità? Ecco sei simpatiche fasi di un’analisi che credo ricalchi il processo.

 

Fase 1: “Oddio no!”. Si parte, credo io, da un semplice presupposto: nasce un bisogno. I protagonisti sono tonnellate di cibo (ordinate al ristorante) e alimenti a rapida deperibilità (comprate al supermercato): alla base c’è una mancanza, paura che va soddisfatta.

Fase 2: “Vincere! E vinceremo!”. Il procacciarsi l’oggetto di valore nella quantità direttamente proporzionale alla (fallace) percezione dell’entità della propria mancanza (megapizzasuperconditatriplamozzarella) diventa necessario. E farlo nella maniera più economica possibile (supermercati, ristoranti “all you can eat”) è la parola d’ordine.

Fase 3: “Dacci dentro!”. La fame, la paura di non avere abbastanza “qualcosa” nel frigorifero è al culmine. Ma una volta dentro, un brivido sessuale, un’erezione di bramosia spasmodica sovrasta l’eroe nel vedere l’abbondanza di cibo e alimenti nei contenitori, sugli scaffali. Eldorado si mostra.

Fase 4: “Oh yes! Oh Yeah!”. Il sofferente è divenuto più bestia che uomo: arraffa con multiple mani in molteplici piatti tutto quello che può accumulare, tutto quello che gli pare ansiosamente necessario. I piatti sul tavolo sono 4 o 5, il carrello straborda. E ci si riempie. E si carica tutto.

Fase 5: “D’oh!”. Restano i corpi da campi di battaglia. Verdure varie giacciono in un blocco unico di madide e colorate composizioni, qualche brandello di carne è a bordo del piatto e una fetta di pane lo copre come un padre piangente. Tre spicchi di pizza fanno la guardia in semicerchio.

Il frigorifero, invece, si apre e confessa tutto l’orrore degli yogurt scaduti, della frutta marcita, dei formaggi con la muffa, il latte che urla rancido.

Fase 6: “Ti ho sempre amato”. L’inevitabile esecuzione capitale del cibo. L’inserviente di cucina trascina come un dio piangente tutto nel bidone. La mano onnisciente della famiglia, invece, con rapido gesto fa sparire tutto. Riecheggia giusto per un po’ quel grido del latte. Sì, c’è il rifiuto del cibo. O il cibo come rifiuto. Fate voi.

 

Il principio cardine è il passaggio dalla mancanza alla soddisfazione: il congiungersi con ciò che si desiderava inietta un brivido estatico, si è appagati.

Avviene una metamorfosi a livello emotivo:

fame=sofferenza, crampi, desiderio  —- >  mangiare=orgasmo, disinibizione, estasi

—- >  soddisfazione=pienezza, completezza.

Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se il classico principe azzurro, nel timore che non sia quella giusta, si mettesse a salvare più di una damigella in difficoltà? Una volta innamoratosi di una, perderebbe del tutto l’interesse per le altre. Gli oggetti del desiderio diventano indifferenti una volta sopperita la mancanza. Nessun senso di colpa per la condanna che dovranno subire: il rifiuto!

Così pure quando coinvolte ci sono carte ed involucri. Tutto intero è l’oggetto del desiderio (merendina+involucro), ma una volta esperito rimane l’inutile e disgustoso residuo di un lontano bisogno. E quando accade fuori casa sono i rifiuti per terra, quando si è in casa diventa una palla di indifferenziata.

E’ come se si alternassero maschere, dove ciascuna nega il suo opposto.

Si potrebbe quindi tentare di intervenire, in quel particolare campo che è la pubblicità (sociale), in questa direzione: imporre un significato connotativo al cibo, più profondo del semplice “ciò che si mangia”, rifiuto senza speranza. E quindi, inventando giusto per capirci (e scusate la pochezza), il cibo come “fonte di vita: se non lo sprechi salvi qualcuno, eroe!”; l’involucro delle patatine “è stato il compagno fedele che te le ha portate sane e salve. Merita di più, può fare di più: riciclalo”, “Il mondo non può andare avanti col tuo rifiuto“, etc.

A livello molto pratico, e non come me che parlo e basta, sta facendosi le ossa un progetto molto interessante per ovviare allo spreco di cibo. E credo si basi esattamente sulla necessità di questo ribaltamento: il cibo non è un rifiuto. E una opportunità è quella di farlo adottare, di scambiarlo, mettendo a frutto i prodigi delle “magnifiche sorti e progressive”. Complimenti a loro! (Per chi guarda solo il proprio ombelico culturale, fate clic e metteteli alla prova).

In Inghilterra, invece, sono entrato in contatto epistolare con Food Cycle, il cui intento è intervenire contro gli sprechi dei grandi supermercati, e riutilizzare il cibo scartato perché o in periodo di scadenza, o perché il packaging non era riuscito perfetto (logo non leggibile o storto, colori diversi sulla scatola etc.).

 

Fase 7: “Game over”.

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