Poesia e (è) attenzione


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Avevo pianificato di parlare d’altro, ma come spesso accade coi pensieri scomodi, come un tratteggio fuori del contorno che assale di fastidio, si finisce col deprecarli.

Volevo parlare dei tweet e degli haiku (non chiedetemi la connessione, l’ho dimenticata). Ma qualcosa ha catturato e vinto la mia attenzione.

Sono a Norwich da qualche mese. Nulla sapevo e nulla so.

In scala seppur ridotta, ho provato il leggero disagio del migrare, delle seccature quotidiane per vivere (non sopravvivere, fortuna rara). Facile, per un europeo.

Ma ho sentito le voci sparse di cui voglio parlare, per impegni sociali, culturali, strettamente legati a qualcos’altro, qualcun altro.

 

Mi sorprese quanto fossi bombardato, solo camminando in città, degli affanni di altri. E il magnifico effetto fu una rotazione del collo, una torsione per cambiare prospettiva. La poesia è guardare da un’altra prospettiva.

Infantile mi chiesi, passeggiando, quanto mai povera o miserabile potesse essere questa città, dove solo in una via sono in fila tre charity shop; più giù gli uffici e un negozio del Salvation Army; più avanti ancora il cafè “verde” dove lavoro. Sono io, o tutto è peggiorato di colpo? Sono io, anestetizzato, che mi sveglio e sento il dolore.

Era come se i senzatetto fossero discreti e gli immigrati spersi nell’ombra: non sembrano esistere.

Il tragico effetto di vedere prima chi cerca di aiutare che l’aiutato. E, come di suo solito, anche la poesia cercava di fare la sua parte.

L’ineffabile A. Motion, che già avevo categorizzato nell’articolo precedente, si stufò (2009) dei suoi obblighi da “laureato”, molto più assordato da altre voci che giravano attorno, e non erano quelle della famiglia imperiale.

Prendete William, o Will

come è divenuto,

spogliato del suo nome

e della sua sicura proprietà

ora l’improvvisa perdita

lo ha scaraventato giù

nella ghiacciata fessura

tra porte e scalini

in mezzo agli altri allo stesso modo,

tutti han perduto la loro divina lode…

Andrew Motion, “What is given” (trad. mia)

La poesia in questione fu scritta dopo l’incontro del poeta con i senzatetto aiutati dal Salvation Army.

Sul treno, sui mezzi pubblici, su volantini di qualche bancarella là dal Forum, non apparivano che api, api api: una campagna a difesa dell’apicoltura e degli alveari.

Mi ritrovai quindi al banchetto del pomeriggio alla Greenhouse, di biscotti, poesia, the, dipinti e disegni di api. La questione dello sberleffo umano ai pronubi divenne mia:

Addolcire tisane,

ad esempio, col frutto

distillato da sforzi

                                                                                              d’equipe, è questo il fine,

                                                                                                  il senso di una vita

                                                                                                   in grado di volare?

                                                                                                    Una luna di miele

                                                                                                  costante dai profumi

                                                                                                   di tutta una stagione

                                                                                                   non dovrebbe bastare,

                                                                                                     persino a chi detesta

                                                                                                        la cella e l’alveare?

Antonello Borra, “L’ape”

E in fondo fu piacevole: passare prestando attenzione, quasi obbligato, a pubblicità su questioni, ferite aperte.

Ma saranno fioriti pensieri scocciati anche, “E che palle ste api. Basta con sti senzatetto. E gli immigrati stavano benissimo altrove. Ma perché non posso vedere qualcosa di leggero?”, costretti a guardare fisso. Un po’ come nella futuristica terapia di Arancia Meccanica. E ovviamente gli orrori sono veri:

Mia madre

(oh nera madre i cui figli sono dipartiti)

tu mi insegnasti ad aspettare e sperare

proprio come tu hai fatto durante tutte le ore disastrose

Ma in me

la vita ha ucciso quell’inafferrabile speranza

Io non aspetto più

ciò che è ora atteso sono io

La speranza siamo noi stessi

i tuoi figli

che viaggiano verso una fede che nutre la vita

Noi i nudi bambini delle senzalas

ignoranti monelli che giocano con palloni fatti di stracci

sulle colline di mezzogiorno

proprio noi

assunti per bruciarci le vite nei campi di caffè

rozzi uomini neri

che devono rispettare i bianchi

e temere il ricco

noi siamo i bambini dei quartieri nativi

che mai l’elettricità raggiunge

gli uomini muoiono ubriachi

lasciati al ritmo dei tom-tom della morte

i tuoi bambini

affamati

assetati

che si vergognano di chiamare te madre

che temono di attraversare le strade

che temono gli uomini

Siamo noi stessi

la speranza di vita ritrovata.

Augustinho Neto, “Farewell at the Moment of Parting” (trad. mia)

Alla Picture the Poet, la foto stanca del poeta di colore della mostra, mi affamò: chi era, che storia racconta. Da bravo pigro, solo settimane dopo presi il mio tempo e lessi. Questa poesia non è sua, ma la stanchezza e le domande sono le stesse.

Poeti africani. Sentire nelle loro liriche tutta la fortuna di essere “bianco”. Cambio di punto di vista.

Ma quando di prospettive ne viene fissata una sola, un automatismo su cui non pensare, allora qualcuno ha vinto: il senzatetto è un disgraziato, di api ce ne sono tante (e poi sono pericolose, pungono! Poi a che cazzo servono alla fine?), gli immigrati sono stupratori, non poeti.

Che dire. Forse se tutta la catena alimentare della comunicazione (dalla pubblicità ai giornali, riviste, ricettari di cucina, Fabio Volo e le frasi dei Baci perugina) iniziasse a iniettare dolcemente di questi temi, i pensieri cambierebbero (?), diventerebbe “normale” vedere la fatica, comune prestargli attenzione.

Poi arriverebbe il giorno in cui ci si ritrova tutti, e si dice: “Ehi, perché non andiamo a fare un salto a Gaza? E sai che c’è? C’è che se continuano a bombardare entriamo nelle case, a vedere se vogliono far saltare in aria anche noi. Dai.”.

Poi mi svegliai.

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