Presentazione: parla l’abitudinario


Vi sono vari modi per iniziare un blog e questo non sarà di certo il migliore, ma non ho dichiarazioni d’intenti da fare né linee programmatiche etc. etc. No, in effetti, non è niente di così importante. Io possedevo un blog (forse virtualmente posseggo, ma si è esaurito), perciò non posso scrivere qui proprio allo stesso modo ne con la stessa impulsività di prima. Ma siccome l’anno nuovo cade oggi e siamo proprio all’esordio, anticipo il proposito normativo di seguire approssimativamente la traccia di un personaggio per post, e se la infrangerò sarà per giustificato motivo. Così per riallacciarsi a ciò che scrivevo prima ecco un esempio che fu scritto all’incirca un anno fa, per divertimento (e polemica). Mi sembra una buona introduzione, partire con un esempio:

“Abitudinari, ci chiamano. Certo, ci chiamano così con disprezzo, ma la verità è che tutti ci cascano, nell’abitudine, prima o poi. Anche se i loro vagheggiamenti giovanili li portano ad assecondare le passioni più violente, il corpo – lo dice persino la scienza medica, se non bastasse la sola ragionevolezza – richiede momenti di giusto riposo e tranquillità senza sentimenti strazianti, né grandi risate, men che meno cupa malinconia. Noi abitudinari di questo ridente paese siamo, a chiamare le cose col loro nome, quelli che si trovano così bene dove stanno da domandarsi con un sorriso in volto perché mai si debba partire ed andare in cerca di altro, sempre tesi all’ignoto, a quello che non è qui ma un poco più in là, e non invece apprezzare quel po’ (un bel po’) che c’è qui, in questo stretto spazio abitato, fra costa e montagna.

Certamente, mentre gli altri girovagano per il mondo e gli capita fra le mani chissà quale tesoro, noi siamo qua ogni sera, in compagnia della partita di briscola e del vino sorseggiato come di consuetudine verso le 10, oramai ben sincronizzati con i battiti dell’orologio della torre campanaria; ma chi l’ha detto poi che la quantità sia sinonimo di qualità? Noi questo vino l’abbiamo gustato così tante volte – e senza fretta né preoccupazioni – che ne conosciamo ogni momento, ogni dettaglio più insignificante, e siamo chiamati a ragione ‘intenditori’: così, a differenza dello straniero (anche se fosse un grande esperto di vini, magari persino di nazionalità francese) sappiamo di quel pizzicore che manca del tutto a quello dell’altro bar in centro, sappiamo che quell’aroma che si dà così e cosìappartiene precisamente a quella botte in alto a sinistra. Dettagli insignificanti, dicono quelli che viaggiano – forse, diciamo noi, ma dettagli che ci piace gustare e conoscere. Ed è sempre nel dettaglio che la faccenda si risolve, a favore o contro.

Ma poi dove correranno mai questi viaggiatori, sempre di corsa, mai soddisfatti. In effetti rispondeva a questa mia domanda uno di tali uomini – a volte dovete sapere che passano persino di qui, in piena provincia, con sguardi sperduti e in cerca di un alloggio per la notte – confidandomi che chi viaggia, viaggia sempre in cerca di qualcosa o al contrario in fuga da qualcosa.

E allora, a ben vedere, questi che viaggiano sono o deboli o sventurati. Persi nel vasto mondo a fuggire dalle ombre scure che ovunque puntualmente ritrovano (pare infatti verissimo che non si fugga mai da sé stessi) o vagheggiando qualcosa che sono destinati a non trovare mai, al massimo una leggera piacevolezza di percorso, fuggevole, di tanto in tanto, ma mai una casa (forse cercano quella? Ma allora basterebbe soggiornare in un luogo, o tornare da dove sono partiti).

E se la sola esperienza dei singoli non bastasse persino la storia ce lo insegna: i primi uomini erano nomadi, e si aggiravano incerti per il mondo, ma questo fu un inconveniente necessario per lungo tempo, essi infatti impararono che stare sempre negli stessi luoghi era allora ben sconveniente, con le belve feroci in giro, le intemperie e con altri uomini pronti allo scontro nei paraggi; oltretutto le risorse di cui disponevano finivano con l’essere assai limitate. Ma non appena col lento, inesorabile civilizzarsi ebbero l’opportunità, scoprirono il valore della stabilità e della abitudine in ogni aspetto della vita che già d’altronde portavano con sé attraverso i luoghi, ciclicamente, indicandone con nomi i caratteri e le qualità. Fatalmente, una volta sconfitti i loro primordiali nemici, diventarono sedentari. Poi, molto tempo dopo, forse un eccesso di sedentarietà passionale o chissà che altro, inventò il lusso, e con esso la sua figlia più brillante, la noia. E allora, ecco in arrivo guai grossi e nuovissimi per l’umanità! Se solo ci fossimo limitati alle poche, buone abitudini, ecco che non avremmo tutto questo traffico d’uomini che desidera recarsi di continuo dal capo opposto del mondo, e inesorabilmente rimpiange l’inverno quando l’estate è appena alle porte. Lo stadio terminale di questa sventurata progenie ha condotto fra noi il nipote più modaiolo, il turismo. Così anche gli inconvenienti del viaggio (ciò che soli potevano far desistere seriamente il viaggiatore dall’intraprendere la sfacchinata) sono scongiurati e questi moderni nomadi possono fare tappa di capitale in capitale, di stato in stato, senza sosta né pericolo, in cerca di qualcosa che essi chiamano con timore quasi sacrale, esperienza, entità di cui qua, al nostro solito tavolino dubitiamo bonariamente come si fa per una superstizione particolarmente eccentrica.

Ma io voglio dirlo, concludendo, per non essere frainteso, che non sono venuto qui a testimoniare per muovere critica a chi ama il viaggio e l’ignoto, poiché è pur ben comprensibile questa aspirazione che, esattamente come quella alla vita ordinata, tutti, se raggiungono la maggior’età, provano almeno una volta nella vita: la curiosità di scoprire cosa c’è al di là. Solo, la lascio volentieri ad altri, per previa e avveduta scelta – e chiedo unicamente che non mi si biasimi se io rimango seduto qua, in paese, mentre la gente va e viene – Dubai, Berlino, Mosca, Dublino…New York.

Dopotutto questi viaggiatori, quando tornano, mi portano spesso piacevoli ricordi dai loro viaggi: racconti godibili e aneddoti divertenti, fotografie e souvenir, che valgono bene una serata particolarmente vivace al nostro solito bar – con vino in grandi boccali e le ragazze tutte agitate, in attesa per il ritorno dell’osannato “lui”, tanto che quasi non sembra lo stesso luogo, ad eccezione delle pareti e delle solite sei botti.

Tutto molto piacevole: senza questi viaggiatori i giorni di noi abitudinari sarebbero a lungo andare meno interessanti, e gli argomenti di cui discorrere, lo confesso, talvolta scarseggerebbero (o forse come si usa dire, ogni avvenimento finirebbe ingigantito, senza il metro del vasto mondo). Ma è anche vero che da abitudinari quali siamo, conosciamo molto meglio di loro quella inaspettata sensazione, il brivido estatico che suggerisce l’immaginazione – insomma quella che essi chiamano poveramente “l’esperienza del viaggio”; rispetto a loro, quelle poche volte che ci mettiamo davvero in cammino durante la nostra (spesso) longeva esistenza ogni corda del nostro corpo vibra, eccitata e spaventata insieme in attesa di conoscere quell’ignoto passo che succederà a quello appena compiuto, proprio oltre il confine del vecchio podere. E se siete scettici sulla nostra virtù di viandanti, ebbene, libri celebri testimoniano che in noi si cela talvolta più di quanto colpisca gli occhi: una qualità inaspettata, a lungo sopita nell’animo ma pronta da sempre a balzare fuori al momento giusto.

Loro invece, questi viaggiatori necessari, idealisti e un poco bugiardi,  sono così tristemente abituati, al viaggio, da aver da tempo dimenticato quale eccezionalità gli appartiene…”

 

 

6 Comments

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  1. Arianna

    ti rispondo in qualità di viaggiatrice: la mia passione per il viaggiare nasce da una costante irrequietezza alimentata dal desiderio di conoscere sempre qualcosa di nuovo. quando viaggio non fuggo, apro gli occhi e la mente e mi nutro di mille esperienze. l’eccitazione è la stessa della prima volta che ho preso un aereo o un treno, il fascino del viaggio non è certo venuto meno. viaggio per conoscere e, perché no, scegliere il luogo dove mettere radici perché prima o poi è giusto fermarsi e godere della dolcezza delle abitudini. condurre una vita in modalità trottola sarebbe davvero un fuga, questo sì. ma per ora la mia irrequietezza mi “ordina” di continuare a spostarmi…il tempo per briscola e vino lo troverò più avanti, quando avrò visto abbastanza per poter dire che il posto che ho scelto è il migliore (per me) che ci sia.

  2. Lorenzo

    Ognuno vive con i propri buoni propositi, tanto più che questo intervento era evidentemente una celebrazione polemica proprio contro quel ‘proposito di vita’ che tu dici di condividere, e non necessariamente un manifesto del mio proprio modo di vivere…volevo solo, valorizzando il suo contrario, criticare la vaghezza (e la menzogna) che sta dietro all’ideale del viaggio per il viaggio e del nuovo a tutti i costi, abusato e persino confezionato ad hoc con una serie di film must e una serie di gadget inclusi. Ma visto che giustamente mi hai risposto e ti sei assunta ‘l’onere’ ti vorrei domandare ancora come si realizza nel concreto quel ‘nuovo’ e quelle ‘mille esperienze’ a cui tu dici di mirare…poiché sensatamente una persona se non le ha prima vissute non può escludere di trovare piacere anche in cose “vecchie e logore” e in poche esperienze ma che abbiano durata nel tempo e siano profonde. Inoltre mi pare che la fretta di fare spesso nasconda la superficialità e il rifiuto di andare più a fondo: l’attività mondana con i suoi obblighi futili, trasportata anche nell’ambito speculare del tempo libero. E personalmente mi ripugna un po’, questa organizzazione del tempo/lavoro.
    Tu dici che l’irrequietezza è motivo del tuo viaggiare, ma il principio categorico del fare esperienze sempre e comunque nuove è lo stesso per cui necessariamente non ci si accontenta mai delle vecchie, ed è un principio un po’ astratto, ma soprattutto facilmente falsificabile nell’esperienza quotidiana, abitudinaria, che chi più chi meno, in gran parte noi ‘occidentali’ conduciamo. Non voglio essere antipatico e avanzare inutili ipotesi su cosa fai tu nella vita, ma sono persuaso che quelli che ‘per davvero’ non conducono una vita abitudinaria, probabilmente, sono altrove e stanno raramente davanti ad un pc, avendo in genere impegni più urgenti da sbrigare 🙂

  3. Arianna

    premessa necessaria: non ho detto di condurre una vita da nomade, ma di amare il viaggiare. come tutti per vivere devo lavorare e questo mi porta ovviamente a sperimentare anche la quotidianità. il mio viaggiare non è un fuggire dalla routine, ma rappresenta la volontà e la necessità di affiancare alle esperienze quotidiane altre esperienze che possano arricchirmi e aprirmi la mente. non ritengo che fare più esperienze significhi necessariamente viverle in modo superficiale, mentre limitarsi a una o due possa aiutare ad approfondirle maggiormente. io viaggio per poter incontrare nuove persone, nuovi stili di vita, nuove culture perché ciò che più mi spaventa è mantenere una visione della vita che si riduca al contesto culturale, geografico e umano in cui vivo. viaggio per esercitare la mia mente ad abbracciare e comprendere qualcosa che può distare anche anni luce dal mio modo di vivere perché solo così si può davvero crescere e arricchirsi. nella mia concezione del viaggiare non c’è né vaghezza, né tantomeno la ricerca del nuovo a tutti i costi. c’è la volontà di conoscere accompagnata da un desiderio di spogliarsi momentaneamente di tutte le convinzioni derivanti dal proprio background per poter immergersi totalmente in nuove realtà. la ricerca del nuovo non è una fuga dal vecchio, ma costituisce un confronto tra le due realtà senza necessariamente arrivare alla conclusione che una sia migliore dell’altra.

  4. Lorenzo

    Il mio riferimento al modo di vivere non era per criticarlo (in effetti non mi importa molto di farlo) ma per dire che perché le aspirazioni non siano un inganno a sé stessi sembra debbano essere speculari al proprio modo di vivere. Il nomade, come dici tu, hai il pregio di condurre la sua aspirazione al viaggio (le motivazioni poi sono varie, il viaggio per il viaggio mi pare il più vanesio e menzognero fra queste) conforme al proprio modo di vivere. La differenza in fondo sta tutta lì, tra fantasticheria e ciò che davvero succede.
    Comunque, io credo fortemente che voler vivere quante più cose si può senza dare loro tempo e attenzione (banalmente, se vuoi suonare 50 strumenti musicali sicuramente li suonerai tutti abbastanza male, mentre se ne suoni uno o due con dedizione potrai conoscerli a fondo) sia intanto superficiale (gli stati dell’animo non si comandano a forza e quanto di più si vuole vedere, meno si conosce) ma soprattutto menzognero, cioè che sia un proposito intellettuale che non ha poi quasi mai un corrispettivo reale. Le persone possono anche proclamare di amare il prossimo e di volere la pace nel mondo, non me ne frega poi molto. Io sto a come esse sono. Il proclamare sé stessi e il definirsi secondo astrazioni mi sembra già un atto superfluo e in quanto tale vanesio.

    Per il resto, non so bene cosa sia la cultura e il background. Però so per certo che tu non puoi fare a meno di essere soprattutto legata al luogo dove nasci e dove cresci. Avere paura di questo è avere paura di sé stessi, e, per inciso, credo che anche questo timore della contingenza, questo desiderio smodato di avere tutto (persino l’esotico) sia una gentile eredità del luogo (e del tempo, aggiungerei) in cui sei nata. E un lusso permesso soprattutto dalla tecnologia avanzata e dal benessere generalizzato.

  5. Arianna

    Non posso condividere quanto hai scritto nel primo paragrafo perché sono convinta che sognare/fantasticare sia una sfida verso noi stessi che può portarci ad affrontare esperienze diverse dalla nostra quotidianità che possono aiutarci a migliorare e crescere. Sto parlando ovviamente di sogni concretamente realizzabili almeno in parte, non di desideri inesaudibili perché lontani anni luce da noi stessi e dal nostro modo di vivere.
    Riguardo all’ultimo paragrafo, visto che hai citato gli strumenti musicali, ti rispondo con una metafora musicale: la mia insegnante di pianoforte mi diceva sempre che il piano è uno strumento propedeutico anche a molti altri, nel cui studio sarei stata sicuramente facilitata. La quotidianità e il proprio background per me sono come il pianoforte: una base (da cui assolutamente non rifuggo) che mi fornisce i mezzi necessari ad affrontare qualcosa di nuovo.
    Sono d’accordo con te che aspirare a suonare 50 strumenti musicali sia assolutamente superficiale, ma tra uno e 50 si trova una sana via di mezzo.

  6. Lorenzo Lazzarini

    Sempre rimanendo nell’immagine musicale, certo che il pianoforte è uno strumento che per sua natura apre a tanti altri. Ma la differenza tra suonare il pianoforte e il suonare le percussioni, nonostante la presenza comune di un ritmo è la stessa cosa? Nell’ambito della musica vedi bene come ogni strumento richieda che suonandolo, nell’abitudine che è l’esercizio e l’esperienza, tu apprenda lentamente a conoscerlo. E certo conoscendo già uno strumento (e magari avendo delle basi di teoria e solfeggio) si hanno dei vantaggi introducendosi ad un altro, ma la qualità dei due è diversa e ciò che conosci anch’esso risulterà mutato se esercitato su un diverso strumento. In aggiunta a questo, lo strumento che hai suonato più a lungo sarà per te imprescindibile nel suonare gli altri, specie se è quello che ti ha introdotto agli studi musicali. Così come i cambiamenti nel suonare non avvengono se non con tempi lunghi, lo stesso è anche nell’abitare e nel visitare luoghi. L’ideale del viaggio per come viene proposto (e per come l’ho proposto imitando ciò che ho sempre visto e udito) ignora volutamente questi aspetti fondamentali che sono simili anche per altri tipi di esperienza, come quella musicale.

    Mi ripeto: sarebbe come limitarsi ad essere incapaci utilizzatori di molti strumenti, appunto, dilettanti assoluti (il ché non vuol dire, per converso, che bisogna diventare virtuosi). La sana via di mezzo è brutalmente spostata verso la prima decina, nel caso degli strumenti, anche contemplando un’intera vita di studi. Non a 25. Questa è la ragione dell’abitudinario!

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