
Mission Impossible ha un problema con gli stunt
Passano gli anni, ma non passa la voglia di Tom Cruise di correre come un pazzo nei suoi Mission Impossible.
Correre come un pazzo in scena – letteralmente – per andare dal punto A a B e correre metaforicamente ogni volta all’inseguimento di uno stunt più complesso e pericoloso del precedente. Fino, purtroppo, a far sì che i suoi film vengano fagocitati dalla sua stessa smania di apparire.
Ma procediamo con ordine.
Mission Impossible nella storia del cinema
Il primo capitolo di Mission Impossible arrivò nei cinema a metà degli anni Novanta.
Era un periodo di transizione, in cui i grandi blockbuster hollywoodiani stavano setacciando varie strade. Non esisteva ancora il concetto di “Universo cinematografico” coniato dalla Marvel: i film, al massimo, venivano costruiti pensando per trilogie.
Ma in generale dovevano funzionare al primo colpo. Nessuno si arrischiava a giocarsi il malloppo sulla lunga distanza: il film doveva andare bene al primo capitolo, incassare e solo in un secondo momento si pensava a come spremere il succo fino all’ultima goccia. La serialità sulla lunga distanza era, appunto, ancora appannaggio delle serie tv.
Mission Impossible dalla tv a Tom Cruise
Mission Impossible era nato proprio come serie tv negli anni 60-70 e – dopo un gran successo – era finita nel dimenticatoio. Era compito quindi di una squadra di primo livello riportare la proprietà intellettuale in auge presso il grande pubblico.
E… no, dati i nomi coinvolti, questa era tutt’altro che una “missione impossibile”: Brian De Palma in regia, un mattatore come Tom Cruise nel ruolo di protagonista, uno stuolo di comprimari di livello, una soundtrack collaudata e un comparto tecnico di assoluta perfezione. Successo immediato.

La scena forse più memorabile del primo film, entrata di diritto nella storia degli heist movie (Credits: Paramount)
Budget dichiarato di 80 milioni di dollari, incasso globale di 460. Al comando del suo “campione” la saga tornava in carreggiata e si apprestava a diventare un successo stabile delle successive tre decadi di cinema.
A buon diritto, aggiungo.
Chi come me aveva 11 anni in quel 1996 non può essere indifferente a questa saga. Mission Impossible era uno spettacolo di 110 minuti (bei tempi quando il cinema di genere durava due ore!) che si concludeva con un inseguimento in galleria tra un treno ad alta velocità e un elicottero tenuto “al guinzaglio” dal primo.
No, non si può essere indifferenti.
Missione impossibile: “fermarsi”
Da quel lontano 1996 è stata un’escalation. Quattro anni dopo, in una Hollywood rivoluzionata dal gargantuesco Matrix, la parola d’ordine è “Hong Kong”.
Hollywood prova ad adattare come può la formula dell’action hongkongese declinandolo con i volti occidentali. Gli attori si arrabattano come possono in un cinema che non è il loro, ma è dura. Un cinema fisico in cui le star, le botte, le prendono sul serio! Sei stuntman di te stesso, devi metterci sia la faccia che i muscoli!
Per Tom Cruise però non è un problema. Anzi, lo fa già!
Ecco quindi che viene piazzato in regia quel mostro sacro di John Woo (già rodato a Hollywood da tre film strabordanti della sua estetica) e gli si dà carta bianca.
“Vai e travolgi tutto”.
E questa squadra travolge tutto eccome!
Tom Cruise che apre il film con una scena di free climbing assolutamente inutile alla storia (ma fondamentale per inquadrare il personaggio) “balletti” tra auto in testacoda, colombe al rallentatore, voltafaccia – letteralmente – a ritmo continuo, proiettili a più non posso, moto usate come nelle giostre tra cavalieri del medioevo.
Il film è un concentrato di azione coreografata in maniera impeccabile, che schiera in soundtrack chiunque fosse hard rock/nu metal in quel periodo.
Nuovo successo globale.
Mi fermo al secondo film in questa retrospettiva: i successivi capitoli perderanno di fatto una loro unicità interna. Ogni titolo avrà le sue scene madri – sempre di pari passo con uno stunt più complesso del precedente del suo araldo Tom Cruise – ma le trame e gli sviluppi diventeranno via via meno memorabili.
Mission Impossible: Dead Reckoning Parte Uno
Eccoci qua.
Giunti al settimo capitolo, la saga ormai ha uno stile dichiarato. Da svariati capitoli ruota attorno alle medesime figure chiave (Christopher McQuarrie in regia, Tom Cruise a comandare effettivamente tutta la baracca) e generalmente cerca di spingere una narrazione trasversale ai film e non più autoconclusiva come nei primi episodi.
La dimostrazione definitiva è addirittura la divisione in due parti dell’ultimo film: la prima parte uscita il 12 luglio scorso, la seconda prevista per il prossimo anno. A parte un’emozionante introduzione che ci riporta ai bei tempi dei film di sommergibili anni Novanta, con gli acerrimi nemici Usa-Urss a sfidarsi, il film segue in realtà una scaletta abbastanza standard.
C’è una minaccia globale (in questo caso un’IA, per stare al passo coi tempi), due chiavi che unite sembrano dare la possibilità di disinnescare il pericolo e varie squadre alla caccia delle medesime, ognuna con le sue egoistiche motivazioni di dominio assoluto.
A parte Ethan Hunt (lo storico personaggio di Tom Cruise), ovviamente: lui vuole liberare il mondo dalla minaccia e proteggere i suoi amici.
La realtà che supera la fantasia
Nell’introduzione avevamo citato l’ormai conclamata smania di Tom Cruise: quella di promuovere talmente tanto quanti pericoli abbia corso durante le riprese da, paradossalmente, oscurare la resa in sala delle scene d’azione.
Questo film, ancora più dei precedenti, ne è la prova. Se mai ce ne fosse bisogno.
Nei mesi precedenti all’uscita siamo stati bombardati di materiali promozionali che puntassero sul dietro le quinte e NON sulle effettive scene presenti nel film. Vediamo documentari sulla realizzazione degli stunt (pericolosissimi e spettacolari) e molto meno di quello che sarà il film fatto e finito.
Di per sé non sarebbe un problema. E anzi è bellissimo per chi, come il sottoscritto, sia un appassionato dell’arte pratica della realizzazione dei film. Diventa un problema, però, quando questi materiali sono più appassionanti dell’opera finita.
L’esempio cristallino è il famoso salto in moto dalla montagna. Mesi di preparazione, test, calcoli matematici, sincronizzazione di camere e di personale, droni, elicotteri e una troupe dedicata alla realizzazione di uno speciale apposito…
…e poi nel film fatto e finito, tutto il contesto è pesantemente (e palesemente) ritoccato in digitale! Ad esclusione di Tom Cruise e della sua moto, ovvio.
Glissiamo sul fatto che la montagna da cui si lancia realmente il nostro sia in Norvegia mentre la scena nel film è ambientata sulle Alpi austriache. Questa è una prassi usata spessissimo al cinema per ragioni di benefici logistici e di costi, ma se a uno stunt simile sostituisci buona parte dell’ambiente con una computer graphic vagamente posticcia, “disinneschi” tutto l’impianto costruito fin qui!
Conclusioni sulla saga di Mission Impossible
Mission Impossible e il suo protagonista sono vittime di loro stessi. La costante ricerca di stunt sempre più iperbolici da parte di Tom Cruise sta soffocando il respiro della storia di finzione. Siamo quasi più interessati al backstage dietro al film che alla pellicola stessa!
In più, aggiungiamoci che, tolto il lavoro mostruoso di coordinazione delle scene d’azione, il film ha dei buchi logici paurosi.
Certo, a un Mission Impossible non è richiesta troppa filologica attinenza al mondo reale e alla sua fisica dei corpi: gli concediamo volentieri una certa sospensione dell’incredulità. Ma c’è un limite a tutto!
Quando appunto tutta la scena del lancio in moto dalla montagna è un pretesto molto forzato, senza un reale senso nell’economia del film, e si conclude con un’entrata in scena fuori da ogni grazia di Dio, qualcosa nello spettatore si incrina.
ATTENZIONE SPOILER!
BREVE PARAGRAFO DI SPOILER
POTETE SALTARLO ANDANDO DIRETTI ALLE CONCLUSIONISSIME

Ethan Hunt verso la vetta in sella a una moto da cross (Credits: Paramount)
Vi lascio un’altra chicca per rendere l’idea:
La famosa scena in oggetto ruota tutta attorno al fatto che Ethan Hunt deve salire a bordo di un treno in corsa. Il villain di turno ha lanciato il treno – che sottolineiamo essere a vapore, quindi con il classico carbone da spalare in una fornace – a folle velocità, sabotando i comandi per fermarlo e uccidendo i macchinisti…
Ci siamo? È chiaro il setup?
Ma visto che il villain ha abbandonato la locomotiva per proseguire col suo piano malvagio… chi è che materialmente spala carbone nella fornace per alimentare il suddetto treno lanciato a folle velocità? Mistero…
Ecco, ora smetto…
Conclusionissime
Al momento gli incassi parlano di 370 milioni di dollari a livello globale.
Dato il budget stratosferico complicato dalla pandemia (si parla di 300 milioni di dollari, esclusa la promozione) sarà interessante capire che se l’ultima fatica (letteralmente) del nostro adrenalinico eroe sarà una delusione commerciale o meno. Al momento, pare che i suoi diretti contendenti Barbie e Oppenheimer non gli stiano dando troppo spazio.
Dal canto mio, vedo questa deriva degli ultimi capitoli troppo macchinosa per tenere il pubblico in sala come accadeva all’inizio. Due ore e quaranta minuti per un film così sono decisamente troppe. Mi sento di promuovere l’immane sforzo produttivo e ingegneristico di opere simili, ma il meccanismo si sta davvero fagocitando da solo. Nonostante non straveda per Tom Cruise sul lato umano, non posso negare comunque tutta la mia ammirazione per l’attore e produttore.
Così come il film si chiude, rimandando la conclusione alla seconda parte in arrivo nel 2024, anche io lascio vagamente aperto un giudizio definitivo su quest’ultimo (?) film della fortunata saga di Ethan Hunt.
Ci rivediamo con Mission Impossible: Dead Reckoning Parte Due.
E se nel frattempo non ne avete avuto a sufficienza di Tom Cruise, fate un giro sull’articolo di Paola che vi spiega come realizzare un cocktail dedicato a uno dei suoi personaggi più iconici!
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