Elvis – La biografia esagerata del re del Rock vista da Baz Luhrmann


Elvis Presley piaceva a mio padre e alla sua generazione. Ha raggiunto la fama nel 1955 ed è morto, all’età di quarantadue anni, nel 1977. Questa lontananza temporale già basterebbe a far capire che il Re del Rock non fa parte del pantheon della maggior parte dei millennial e di chi è nato dopo. Anche l’immagine un po’ pacchiana degli show a Las Vegas, che mischiavano toni gospel e mosse di kung-fu sul palco, non contribuiscono a rendere appetibile il suo mito ai giovani di questo secolo.

E allora forse è ora di rendere giustizia alla prima grande Rock star, sul grande schermo. Il regista Baz Luhrmann ha scritto, prodotto e diretto la propria monumentale versione della vita dell’artista in un film nelle sale in questi giorni: Elvis.

La narrazione della vita di Elvis dal punto di vista del manager “padrone”

L’impresario Tom Parker – che si fa chiamare “Il colonnello” ma non è mai stato nell’esercito – riflette sulla propria esistenza mentre è a un passo dalla morte. Dal proprio letto d’ospedale, vede le luci di Las Vegas, e racconta di come scovò il talento di un giovane cantante bianco, che cantava come un nero, e capì subito che quel ragazzo era il suo futuro.

Elvis durante uno dei suo numerosi "comeback"

Il film si concentra su alcuni momenti della vita di Elvis, saltando le fasi meno interessanti della sua carriera (Credits: Warner Bros.)

A interpretare questo personaggio narrante c’è uno degli attori più famosi di Hollywood: Tom Hanks. Ha lui l’insolito ruolo di imbroglione che riesce sempre a tirare i fili della storia, che influenza le decisioni e manipola il destino della sua star fino a rovinarlo.

La performance di Hanks è volutamente sopra le righe, addirittura cartoonesca, sotto il pesante trucco e le protesi facciali necessarie per farlo assomigliare al pingue Parker.

Quella che segue, per due ore e quaranta, è la vorticosa storia dell’ascesa e del declino del Re del Rock, Elvis Presley.

Baz Luhrmann e il tocco (registico) di re Mida

Sono passati quasi dieci anni dall’ultimo film di Baz Luhrmann, Il grande Gatsby, e forse ci siamo disabituati al suo stile registico magniloquente e ipercinetico. Fin dai primi fotogrammi, però, le sue inquadrature aeree e i movimenti di macchina “impossibili” ci ricordano che il regista australiano è dedito allo spettacolo con la “S” maiuscola.

La regia di Luhrmann è sempre come un giro di giostra, esilarante ma a tratti troppo frenetica. Non c’è intimismo nella sua narrazione, e forse non è un caso che la vicenda sia raccontata dal punto di vista (difensivo e superficiale) dell’antagonista, cioè del controverso manager che ha fatto conoscere Elvis al mondo ma che lo ha anche sfruttato commercialmente, limitandone le ambizioni creative.

Il giovane attore fino a oggi sconosciuto sa trasformarsi in Elvis grazie a uno studio profondissimo della voce e dei gesti del Re

Austin Butler sa calarsi nei panni di Elvis Presley in maniera impressionante e appassionata (Credits: Warner Bros.)

La commistione di generi tra vecchio e contemporaneo, nella colonna sonora, è stata un successo in Moulin Rouge e può aver funzionato in Gatsby.

Per Elvis però non c’era bisogno di remixare il Re con interpreti contemporanei discutibili come Doja Cat o Diplo. Per parafrasare una battuta di un celebre film sui dinosauri: non serve l’effetto “wow”, Elvis era già “wow”!

Invece il regista “frulla” una canzone dentro l’altra, che sia in atto un numero musicale o che passi semplicemente in sottofondo: in alcune scene è efficace, come quella di That’s alright mama suonata nel bordello e contemporaneamente “santificata” al raduno gospel, perché mostra la doppia anima musicale del Rock di Elvis.

In altre sequenze questo remix continuo porta solo confusione.

L’uomo Elvis schiacciato dal mito

Lo stile di Baz Luhrmann predilige la costruzione di grandi scene spettacolari e la maggior parte delle performance musicali sono un trionfo. Tuttavia, non lascia molto spazio all’introspezione. Così i rapporti personali tra il protagonista e gli altri personaggi, dalla moglie Priscilla al manager stesso, rimangono un po’ superficiali.

Sembra che il film si interessi principalmente all’amore bruciante tra Elvis Presley e il pubblico. E lo fa mostrandoci l’isteria delle spettatrici per i frenetici movimenti di bacino del cantante, fino alla partecipazione emotiva della platea agli show nella “gabbia dorata” di Las Vegas.

Austin Butler e Tom Hanks in una scena del film

Elvis e il suo manager “colonnello” Tom Parker, sotto tanto trucco c’è Tom Hanks (Credits: Warner Bros.)

Baz Luhrmann è bravissimo a ricostruire l’icona, un po’ meno a farci capire l’uomo Elvis Presley, con tutte le insicurezze e fragilità che lo hanno consumato troppo in fretta.

Mostra bene come l’influenza della black music e del gospel abbiano plasmato lo stile di Elvis, di come si sentisse più a suo agio in compagnia di artisti neri come B.B. King e Little Richard.

L’America che ha plasmato Elvis Presley nel film di Baz Luhrmann

Vediamo Elvis combattere a colpi di Rock’n’roll (e di bacino) il razzismo e il bigottismo degli Stati Uniti dell’epoca. E per fortuna glissa sul rapporto col presidente Nixon, perché altrimenti di imbroglioni nel film ce ne sarebbero stati due.

Nella vita privata, il Re soffriva ed era irrequieto, stava bene solo sul palco a esibirsi con la musica che amava. Avrebbe voluto diventare anche un grande attore, come James Dean o Marlon Brando, ma gli sono stati offerti sempre e solo “musicarelli” di qualità progressivamente sempre più scadente.

Il film ci fa capire bene anche come le tragiche morti di grandi personalità come Martin Luther King e Robert Kennedy, allo stesso modo del lutto privato per la perdita della madre in giovane età, abbiano alimentato la paranoia che ha creato la sua dipendenza da psicofarmaci.

Austin Butler diventa Elvis – È nata una stella

Il punto di forza del film sta nei due ruoli principali, la stella nascente Austin Butler e la solida garanzia Tom Hanks. Se il secondo nome può portare in sala alcune fasce di spettatori, sarà poi l’attore più giovane (e sconosciuto) a conquistare tutti.

Butler è una rivelazione: interpreta Elvis dall’adolescenza alla morte mettendoci corpo e anima. Il suo viso non squadrato e la sua corporatura esile sono poco somiglianti ai tratti fisici del grande rocker, ma il suo studio sulla mimica e sulla voce di Elvis sono impressionanti. Basta un suo guizzo, uno sguardo o un sorriso, e l’essenza del Re del Rock compare – come trasfigurata – abbagliando il pubblico. E non dimentichiamo che è l’attore stesso a cantare con la propria voce durante le perfette sequenze musicali.

Poi è chiaro che, quando durante l’epilogo vengono mostrate le immagini del vero Elvis, il sangue scorre diversamente nelle nostre vene. Il suo carisma ci investe ancora come un’onda d’urto, anche a tanti anni di distanza. È un po’ come in Bohemian Rhapsody: Rami Malek ha fatto un lavoro eccezionale per interpretare Freddie Mercury, ma personalità del calibro suo e di Elvis Presley sono uniche e irripetibili. Se abbiamo l’esigenza di vederli per com’erano veramente, esistono i documentari.

Detto questo, Austin Butler realizza una performance eccezionale e merita fin d’ora la grande fama che questo ruolo gli porterà.

Se volete conoscere un mito per la prima volta, oppure riviverlo attraverso una biografia musicale molto spettacolare, è il momento di correre in sala a guardare Elvis!

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