
Il bar delle grandi speranze – George Clooney e il romanzo di formazione nella periferia americana
George Clooney torna alla regia con The tender bar, adattato in italiano come Il bar delle grandi speranze, uscito a metà dicembre nelle sale e finito quasi subito in streaming dopo aver sgomitato un po’ con i colossi usciti in quei giorni al cinema.
Prima di dirvi se valga la pena di una visione, meglio fare un passo indietro.
Il bar delle grandi speranze, Ben Affleck e la crisi del cinema nei confronti dello streaming
È una regola di mercato: i colossi dello streaming finanziano progetti di regia interessanti, a condizione di poterli trasmettere in via esclusiva sulle proprie piattaforme anziché passare dalle sale cinematografiche.
È un sacrificio enorme per il grande schermo, che si ritrova sempre più sull’orlo del collasso. Si tratta di una crisi sistemica, complicata dal diffondersi della pandemia, e segnata dal disinteresse collettivo per un’arte che aveva fatto del sostegno popolare e della sua accessibilità un manifesto culturale.

Una scena di The tender bar – Il bar delle grandi speranze (Credits: Big Indie productions)
Sulle origini della crisi si è recentemente interrogato l’attore americano Ben Affleck in un’intervista rilasciata al settimanale statunitense Entertainement che, tuttavia, deve aver dimenticato la sua interpretazione (peraltro di buon livello) nel nuovo lungometraggio del regista/attore George Clooney, Il bar delle grandi speranze (The tender bar), disponibile solo su Amazon Prime Video.
The tender bar: le ragioni di un’assenza dalle sale
Tralasciando le “smemorate” dichiarazioni del celebre attore hollywoodiano, bisogna domandarsi le ragioni per le quali un buon film come The tender bar, diretto da un’assoluta star del cinema come Clooney, non sia stato nemmeno trasmesso al cinema nel nostro Paese.
Non che negli States sia andata meglio: l’esperimento di proiezione nelle sale cinematografiche americane è partito il 17 dicembre scorso ed è durato poco: appena 20 giorni dopo, gli abbonati ad Amazon Prime potevano comodamente optare per il loro divano di casa, senza scomodarsi a uscire per andare al cinema.

Tye Sheridan in una scena del film diretto da George Clooney (Credits: Big Indie pictures)
Il bar delle grandi speranze è tratto dall’autobiografia del giornalista del New York Times J.R. Mohringer, Premio Pulitzer, e narra dell’età giovanile e studentesca dello scrittore. Nella trasposizione cinematografica di George Clooney, la gioventù dell’autore è occasione per ammiccare ai più popolari romanzi di formazione americani, con elementi celebrativi della letteratura popolare novecentesca di Salinger, Twain e Steinbeck.
Il richiamo è evidente. The tender bar tratta, più di qualunque altro aspetto, dell’importanza dell’educazione culturale come forma di emancipazione dalla povertà. Educazione culturale, che è anche emancipazione territoriale dalla depressa periferia americana. Una periferia che, in questo ritratto familiare, assume, peraltro, un contorno agrodolce.
Si tratta di un costante dilemma che arrovella lo scrittore/protagonista: approdare al College, in una grande città, piena di sconosciuti, oppure rimanere nel “piccolo” e familiare quartiere di casa.
The tender bar – George Clooney e la “periferia” americana
Il dilemma amletico del protagonista è un tema ricorrente del cinema europeo, piuttosto che in quello americano. Quest’ultimo, spesso, condanna la vita di provincia e di periferia, facendone emergere le mostruosità e le contraddizioni. Non si tratta di nulla di particolarmente originale, ma una nota di merito va data a George Clooney per la scelta di non condannare, a priori, la periferia di una grande città americana (Long Island, nello specifico).
Può darsi che si tratti di una decisione un po’ “paracula”, fatta da chi non conosce e/o vorrebbe conoscere meglio l’America più autentica, quella di cui parlano i grandi interpreti della letteratura che citavo prima.
Cionondimeno, Clooney è bravo nell’adottare una strategia, per così dire, “democristiana”: confondere il pensiero dello spettatore, che non sa a quale dei due ambienti il protagonista convenga rivolgersi.
Un romanzo di formazione in salsa cinematografica
Ci si lamenta spesso, di recente, che gli Stati Uniti non producano più – almeno a livello mainstream – un cinema di livello, ormai sacrificato al politically correct e riservato a registi già in là con l’età e senza ispirazione (si vedano le aspre critiche riservate a Don’t look up di Adam Mckay).
Si può dire di tutto, ma è certo che gli americani continuino ad essere dei maestri del romanzo di formazione e che questa loro abilità sia stata trasferita nel cinema.
Anche questo film, soprattutto nella prima parte, indulge nei medesimi interrogativi dei grandi protagonisti del romanzo americano, come Tom Sawyer, Tom Joad, il Giovane Holden: la ricerca di un’identità, il rapporto controverso con il padre (e con le convenzioni sociali), il costante desiderio di evasione e di riscatto sociale; e lo fa con immagini molto lineari e una sceneggiatura gradevole, che scorre piacevolmente fino al finale.
Non particolarmente apprezzata è, invece, la voce fuori campo, che ha un effetto eccessivamente didascalico.
The tender bar e la rappresentazione della virilità
Il protagonista del film è un ragazzo piccoloborghese cresciuto in una delle tante coppie separate traumaticamente e prematuramente, educato dalla sola madre e da figure che hanno, nel tempo, sostituito l’assenza paterna. Di buon impatto la scenografia, che perlopiù si dipana in ambienti domestici (la casa del nonno) e para-domestici (il bar dello zio Charlie), disegnando immagini “polverose” ma avvolgenti.

Ben Affleck e Tye Sheridan in una scena di Il bar delle grandi speranze, titolo italiano di The tender bar, diretto da George Clooney (Credits: Big Indie productions)
Lo zio Charlie è l’elemento maschile dominante, l’ispirazione del giovane protagonista: si tratta di un uomo senza figli, dalle abitudini semplici, ma di grande spessore morale e umanità.
Ai più potranno apparire banali e un po’ retrograde le lezioni di virilità impartite al nipote, alle prese con le prime vicende adolescenziali. Tuttavia non è male nemmeno rappresentare elementi maschili (tradizionali, per così dire) ma positivi, di tanto in tanto.
Alcuni critici, recensendo il film (ad esempio Roberto Nepoti per Repubblica) hanno addirittura invocato un #MeToo per abbattere lo stereotipo della dialettica sociale “vincenti contro perdenti”, metafora più volte ripetuta anche in questa pellicola.
Tutto però va rapportato a una cultura, quella americana, che è innanzitutto diversa dalla nostra, e si ispira fortemente alla logica del riscatto dell’individuo nella società. Negare l’esistenza di una differenza così grande tra la società americana e la nostra dimostra una tendenza dei critici (da una parte e dall’altra) all’omologazione del giudizio, che è negativa a prescindere.
Del resto, non è giusto pretendere di fare propria un’opera diversa, realizzata da un registra straniero e nemmeno è corretto che tutti i racconti debbano volgere al medesimo esito.
Il bar delle grandi speranze – Bello, ma non originale
Certo, si capisce benissimo che il film è diretto da un uomo e non da una donna: nella “battaglia” per la salvezza del giovane protagonista, a bucare lo schermo non sono tanto le scelte, coraggiose e di dignità, della madre. A farlo è invece lo zio Charlie, esempio positivo di uomo tendenzialmente “fallito” (per dirla all’americana), ma in grado ancora di volere del bene e di sperare per il futuro delle persone care.
In questo, George Clooney opera – anche involontariamente – una scelta interpretativa abbastanza “conforme” ai suoi canoni maschili. È la mancanza di un elemento maschile (e del padre in particolare) a muovere i fili della storia familiare e a comportare la reazione di tutto ciò circonda questo vuoto. La biblioteca di casa e il bar (che è un bar-biblioteca) dello zio Charlie sono l’ispirazione che è mancata al padre del giovane protagonista, alcolista e prevaricatore.
In conclusione, una bella – anche se non particolarmente originale – storia di formazione. Bravo Clooney, che ha il merito di valorizzare l’elemento della cultura come principale strumento di emancipazione personale.
Buona visione a tutti!
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