007, No time to die – E se James Bond fosse diventato anacronistico?


Ci siamo. Il 30 settembre scorso, in tutti i cinema d’Italia, è andata in scena la prima visione di Bond 25 – No Time to die, l’ultimo lavoro di Cary Fukunaga, regista statunitense, divenuto celebre per aver diretto l’apprezzatissima serie tv poliziesca True Detective.

Si è atteso molto per vedere nuovamente Daniel Craig nei panni del più amato agente segreto al servizio di Sua Maestà, dopo la parentesi di Knives out; la messa in onda, complice il diffondersi della pandemia, ha tardato di oltre un anno rispetto a quanto la produzione Universal avesse pianificato.

Vediamo com’è andata.

Due riflessioni su James Bond, Daniel Craig e No time to die

No time to die è un capitolo di svolta per la saga di James Bond. Già nel titolo, evoca nello spettatore un senso di ambiguità.

Ci si chiede perché, da un lato, dopo tutto questo tempo, la saga di Bond sia riuscita a mantenere un livello di seguito e passione costante nel pubblico, durante gli oltre 50 anni di produzione cinematografica.

Dall’altro, invece, ci si domanda in che modo l’ormai cinquantenne Daniel Craig possa essere giunto a interpretare il suo quinto film, divenendo, di fatto, il più longevo 007 dopo Sean Connery.

Daniel Craig nei panni di James Bond

Daniel Craig nei panni di James Bond in No time to die (Credits: Mgm)

Per rispondere al primo quesito – all’apparenza semplice- bisogna dire che James Bond incarna un personaggio unico, tanto nelle caratteristiche fisiche quanto in quelle psicologiche: si tratta di un orfano, solitario, superficiale nelle relazioni, intrigante ed elegante, dotato di un cinico senso del dovere, misurato nella licenza a lui accordata dal Governo britannico di uccidere tutti coloro che minacciano l’ordine costituito. Bond non scende a compromessi ed è abituato a gettarsi nel fuoco e nel fango, senza paura, come nelle acque più gelide, nuotando e sempre riuscendo a sopravvivere grazie alla sua abilità fisica, ma soprattutto, alle sue doti ironiche e di rimozione del dolore.

Tra tutte le doti che più invidio a 007 c’è la possibilità di assumere molteplici identità solo al fine di rimanere profondamente coerente con se stesso; 007 può essere chiunque – purché ciò, ovviamente, non provochi il sacrificio di rinunciare alla propria personalità. Ed in questo non c’è divergenza con qualsiasi altro eroe che si travesta per contrastare il nemico.

Perché Daniel Craig è un ottimo 007

La seconda domanda è forse ancora più complessa: cosa fa di Daniel Craig, a questo punto, un ottimo 007? Ancora di più in questo ultimo film, dove si notano, dirompenti, rughe e (piccoli) difetti fisici? Credo che una risposta stia nella sua impressionante performance muscolare, che è stata capace, in questo quindicennio, di far immedesimare lo spettatore nella sofferenza fisica o nel piacere provato dal personaggio.

L’esperimento era riuscito particolarmente in Skyfall, dove un Craig, già non più giovane, era riuscito a mostrare le proprie “ferite” al pubblico attraverso un corpo e delle espressioni facciali segnate dalla sofferenza, dagli scontri e dalle grave dipendenza dall’alcol.

Tornando a questo ultimo No Time to die, si tratta invero di un primo incontro tra il personaggio Bond e il regista nippostatunitense, Fukunaga, che ha ereditato la fortuna/sfortuna di un personaggio in grande modo rivisitato e interamente riscritto da Sam Mendes, il precedente regista degli ultimi due capitoli. Quest’ultimo, più di tutti gli altri, ha voluto ed è riuscito a scavare nel passato di Bond, intercettando le sue inquietudini nascoste.

C’è un omaggio evidente al proprio predecessore da parte di questo nuovo regista, con richiami costanti al lavoro precedente. E non solamente nella trama, ma anche e soprattutto nelle vicissitudini umane di un James Bond ormai sulla via del pensionamento. Uomo per così dire di altri tempi, non più adatto al presente.

No time to die… o Is it time to die?

Non a caso M (in uno dei dialoghi meglio scritti di questo ultimo capitolo) si rivolge a Bond affermando che, un tempo, il nemico poteva incontrarsi fisicamente in una stanza con il suo giustiziere, mentre ora i nemici sembrano fluttuare nell’etere. La conseguenza che si diffonde, tra le persone comuni è un senso sempre più potente di ingiustizia, per assenza di risposte.

Come è chiaro, la morale è invece opposta, ovvero che il nemico esiste ed è visibile, ma è diventato sempre più difficile, anche per gente come James Bond, fermarlo.

La locandina di 007 - No time to die (Credits: Mgm)

La locandina di 007 – No time to die (Credits: Mgm)

Si prosegue, poi, in una trama pienamente in continuità con quella linea dell’amore e della costruzione dei rapporti umani fra James e gli altri personaggi della saga. Finendo anche, talvolta, per abbracciare un esagerato melodramma, in perfetto stile americano.

La volontà di voler proseguire su una strada già ampiamente tracciata è compensata da numerosi coupe de theatre, che faranno ampiamente discutere. Non posso scendere troppo nel merito, siccome ciò significherebbe, inevitabilmente, spoilerarvi la trama. Ciò che invece posso affermare con convinzione è che i primi 20 minuti del film, nelle sequenze italiane e norvegesi, si fanno apprezzare per l’intensità dell’azione e per il pathos, diffusi da un utilizzo perfetto del sonoro.

La prova di Rami Malek e il ruolo di James Bond nel film

Allo stesso modo posso soffermarmi esprimendo un giudizio sul cattivo. Remi Malek è molto misurato e bravo nella recitazione, eppure mancante di spessore. Il cattivo, tanto approfondito nei più apprezzati capitoli della saga Bond-Craig, indossa qui una maschera di terrore, che però non risulta impiantata su un’adeguata struttura testuale e/o sottotestuale. Non è chiaro il piano, né le motivazioni. Animato da vendetta personale, il personaggio di Rami Malek in No time to die sembra un po’ avulso dal contesto, che è sempre caratterizzato dall’incontro con un agente governativo, in uno scontro che dimentica completamente il lato politico dell’operare dell’agente segreto.

Il personaggio di Rami Malek in No time to die

Il personaggio di Rami Malek nel film di Cary Fukunaga (Credits: Mgm)

In qualche modo anche nell’elaborazione del villain, Cary Fukunaga dimostra di scegliere la continuità con l’ultimo Spectre. Un film, quello di Sam Mendes, che a mio modo di vedere mancava proprio di quel senso politico che dovrebbe essere traccia comune di ogni film di spionaggio. Il rischio è quello di privare James Bond del ruolo principale, relegandolo a quello, inappropriato, di action-man brutale ma dal cuore d’oro.

007 non può scindere se stesso dal servizio segreto per il quale lavora, simbolo di una potenza in decadenza come il Regno Unito, che rivendica un ruolo primario nel gioco di potere internazionale. Venendo a mancare l’elemento politico-nazionalistico, viene da chiedersi allora se il ruolo di Bond non sia divenuto davvero anacronistico.

È giunto allora il tempo di morire o di essere dimenticato? Il paradosso sopravvive fino alle sequenze finali, nelle quali si intravede il dubbio del regista tra l’operare una scelta drastica e differente o una più conformistica.

E alla fine questa decisione registica, penso, si dipinge di un colore ibrido, che rischia di scontentare un po’ tutti.

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