
Lo sguardo intersezionale di I may destroy you
I may destroy you è una serie tv di e con Michaela Coel, coprodotta da Bbc e Hbo, ancora inedita in Italia. I may destroy you è composta da 12 episodi da 30 minuti ciascuno che ti cambiano la vita. O forse no.
Rettifica: I may destroy you ha 12 episodi da 30 minuti ciascuno, che ti immergono in una narrazione così stratificata da riprodurre quasi alla perfezione la complessità del reale. Il risultato è caotico, ingombrante, di difficile digestione alla vista.
I may destroy you è una sinestesia di prospettive in continuo movimento, in continua evoluzione. I suoi personaggi sono gli uni la possibile, non contemplata, interpretazione dell’azione degli altri. La ripercussione di una tale sfaccettata linea narrativa porta la serie a essere un groviglio di voci a cui prestare l’orecchio, senza apparentemente poter sentire l’armonia di quella coralità.
La bellezza è intersezionale

La bellezza del femminismo intersezionale in I may destroy you (Credits: Bbc/Hbo)
E tutto questo è bellissimo, illuminante, a suo modo travolgente.
I may destroy you stravolge la prospettiva del singolo per farlo defluire in una condivisione di unicità, in cui le diversità sono evidenziate nell’intento di una convivenza delle differenze. L’intento qui non è l’integrazione: l’assimilazione di alcuni tratti da includere e altri da escludere al fine di ampliare l’accoglienza dell’altro da sé.
La vera ridefinizione che pratica I may destroy you è quella di rendere l’individuo realmente indivisum, indivisibile nella sua complessità, coinvolgendo in toto la sua unicità, fatta di sfumature, di criticità, di paradossi. L’azione narrativa che compie Michaela Coel con I may destroy you è intersezionale. Nell’effettiva pratica di definire l’intersezionalità come crocevia che attraversa l’esperienza umana nelle sue mille sfaccettature. Per intersezionale dunque si intende quel processo che porta all’analisi dei diversi gradi e delle diverse forme di oppressione, che attraversano una persona nei suoi modi di essere e stare al mondo. Michaela Coel, portando se stessa dentro lo schermo, ci dona la visione di una creatrice, attrice, scrittrice, donna nera anglo-ghanese, eterosessuale, vittima di stupro, che vive a Londra, nel Est End, e non è particolarmente benestante.
L’ulteriore stratificazione di I may destroy you si ha con l’aggiunta degli altri personaggi, per esempio Kwame: istruttore-motivatore eccezionale di aerobica, trentenne nero, omosessuale, una passione per Grindr, apparentemente anaffettivo, vittima di stupro.
Di cosa parla I may destroy you? O meglio come ci parla?
I may destroy you è un insieme di discorsi, è in parte una serie autobiografica, che racconta l’esperienza di violenza sessuale subita dalla sua autrice; ma è anche un racconto di formazione, più che altro una narrazione dell’essere giovani adulti in una società che ti vuole grande ma ti tratta ancora come un bambino capriccioso.
La serie è anche un ritratto della nostra generazione, ci parla da millennial a millennial. La storia è quella di Arabella, giovane scrittrice alle prese con la stesura del suo secondo libro (il primo ha il suggestivo titolo di Chronicles of a fed up millennial). Durante un blocco della scrittrice paralizzata dall’ansia da prestazione, Arabella si trova a dover affrontare l’esperienza di essere stata stuprata. La violenza sessuale è la punta di un iceberg che la serie fa venire a galla nella sua interezza: la cultura dello stupro.

(Credits: Bbc/Hbo)
I may destroy you parla di maleducazione sessuale e sentimentale. È il ritratto di una generazione, la nostra, che deve fare i conti con la crescente consapevolezza che gli strumenti che ci hanno fornito per interpretare ciò che ci sta attorno (il nostro mondo) sono difettosi, male assortiti e parziali/ingiusti.
La serie non cerca di tenere una lezione sull’importanza del consenso nei rapporti umani, ma con il suo ritmo incalzante e una comicità tutta sua dona degli affreschi sulle relazioni tra persone e come queste siano viziate dal nostro corredo socio-culturale. I may destroy you è quella serie che, nel mezzo di una risata, te la interrompe e ti fa scendere negli abissi dell’umanità, ti illumina l’oscurità che sta dietro a una battuta, un atteggiamento.
Quando il mostro non sta sotto il letto, ma sei tu
Nel percorso di sopravvissuta che intraprende Arabella nella serie di 12 episodi a un certo punto la protagonista prende coscienza di essere una donna, con parole sue: “Prima ero troppo occupata a essere nera e povera”.
I may destroy you prende atto di stare al mondo, in un mondo in cui essere donna è pericoloso; il riportare e smontare continuamente gli stereotipi con cui costruiamo la nostra realtà è un’azione costante che fa la serie. Nel raccontare la misoginia e la violenza di genere non si sceglie la vittima perfetta in linea con un certo tipo di moralismo, quella “pura e sacra”; si sceglie quella che per un italiano su quattro se l’è andata a cercare (dati Istat 2019): quella “scostumata”. Ad Arabella piace bere, fumare, fare abuso di sostanze stupefacenti, ballare, le piace stare al mondo a modo suo.

Michaela Coel come Arabella in I may destroy you (Credits: Bbc/Hbo)
Staccare la spina alla cultura dello stupro
I may destroy you è anche la serie che ci fa vedere come gli ingranaggi di un certo modo di pensare siano così dentro di noi, che anche una persona che ha subito violenza riesce a commettere un potenziale abuso. Avviene così che Arabella rinchiude il suo amico Kwame (recentemente traumatizzato) in stanza con un uomo che in quel momento, in quello stato d’animo, gli appare come una minaccia.
Per questo è fondamentale lo sguardo femminista intersezionale che pone in essere I may destroy you, per effettivamente andare a distruggere una mentalità che ci vuole sia vittime che complici. Appare invece evidente quanto il gridare “Not all men” quando si parla di violenza di genere come problema socio-culturale sia controproducente per questo processo di crescita e miglioramento. Qui l’ha spiegato benissimo Maddalena Cerruti
La serie fa trapelare magistralmente il sottopensiero che ci unisce tutti inconsciamente alla cultura dello stupro. Questo mi ha ricordato il bellissimo articolo di presa di coscienza di Carola Astuni, incentrato sul fatto che vivere in una società razzializzata e razzista ci rende razzisti. Se non avviene questo tipo di percorso di autocoscienza e autocritica è impossibile porre le fondamenta del cambiamento, poiché poggerà sempre su basi instabili e ipocrite.
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