The (real) Social Dilemma – Il complotto fa più views di un pensiero critico


The Social Dilemma è arrivato su Netflix all’inizio di settembre ed è già riuscito a permeare le discussioni di bar, salotti, aule universitarie e persino – ironicamente – sui social network. Si tratta di un docufilm, o docudrama, dai toni scandalosamente complottisti e paranoici che racconta, attraverso le parole di vari personaggi (più o meno qualificati, più o meno arrabbiati con il sistema, più o meno in forte necessità di una terapia), come i giganti della Silicon Valley stiano “gradualmente, a poco a poco, impercettibilmente cambiando i nostri comportamenti e le nostre percezioni“.

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La locandina di The social dilemma – o perlomeno come avrebbe dovuto essere (Credits: Celeste Satta)

Ma non solo! Alle voci degli intervistati si uniscono delle scenette che hanno insultato la me-appassionata di cinema, la me-studiosa di comunicazione e sistemi mediali, ma soprattutto la me-essere bene o male dotato di intelletto. Da una sala di comando dal gusto vagamente “Minority Report incontra Inside Out“, tre omini senza scrupoli manovrano un giovane ragazzo allo scopo di tenerlo incollato allo schermo.

Il documentario si apre con una citazione attribuita a Sofocle: Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione” – notare che su Google trovo questa frase legata solo a The Social Dilemma. “Iniziamo bene”, mi dico, mentre ricordo con un sorriso i meme su Jim Morrison e il parmigiano sulla pasta al tonno.

Da docudrama a drammaturgia kitch

Terminata l’introduzione divertente, vorrei portarvi a riflettere seriamente sul messaggio veicolato da questo The Social Dilemma.

L’intero documentario si sviluppa utilizzando un frame narrativo oscuro, angosciante, che dipinge le piattaforme digitali che caratterizzano la nostra società di rete come maghi malvagi interessati non soltanto ad arricchirsi ma anche a manovrarci per controllare i nostri modelli di comportamento.

Sui modelli di comportamento e la grande manipolazione tornerò più avanti, ma vorrei concentrarmi su una scelta stilistica importante. Parlo della gravità di affrontare un discorso così attuale come l’utilizzo del digitale, specialmente da parte dei giovani, con una cornice di senso così pesante e paranoica, con una prospettiva manichea che dimentica quali dinamiche sociali sono esistite ben prima dell’arrivo di Facebook.

L’idea che qualche piccolo omino si possa nascondere dietro i nostri schermi non è lontana da quella di chi pensa che i vaccini impiantino delle sostanze nel nostro corpo che poi verranno attivate con il 5G per ucciderci tutti.

Grazie Adotta anche tu un analfabeta funzionale per il meme perfetto

Sicuramente, come tutti gli aspetti della società umana, anche il digitale mostra dei lati oscuri. Tuttavia, invece di ragionare criticamente, invece di imparare ad utilizzare uno strumento con le proprie logiche e funzionalità, è più semplice pensare al complotto: The Social Dilemma ha fallito ad affermarsi come critica autorevole dove invece è riuscita una serie come Black Mirror – che non aveva bisogno di fregiarsi del titolo parascientifico di documentario per arrivare a farci riflettere su cosa stessimo affidando noi al digitale.

Il formato documentario, inoltre, attribuisce un valore “scientifico” a ciò che viene detto: tuttavia, i dati – quando presenti – sono illustrati in maniera distorta. Si paragona, per esempio, il tasso di suicidi in America all’utilizzo dei social network, senza effettivamente dimostrarne la correlazione di causa.

Ago ipodermico e massa manipolabile: teorie superate da almeno ottant’anni

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The Social Dilemma (Credits: Netflix)

La still qui sopra è presa dal docudrama. Le mani sono quelle delle persone che lavorano alle piattaforme digitali, che manovrano come marionette noi utenti. Pensate sia un concetto nuovo? In realtà, già a cavallo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, quando in Europa stavano sorgendo le dittature e la loro propaganda iniziava a farsi strada tra la popolazione, nasceva l’idea che la propaganda attraverso i media di massa fosse in grado di manipolare i comportamenti di chi riceveva il messaggio.

La teoria prende il nome di Teoria dell’ago ipodermico ed è stata, dagli anni 40 del Novecento, la base per lo studio delle comunicazioni di massa. Proprio come in The Social Dilemma, in questa teoria il pubblico è visto come una massa: indifferenziata, composta da soggetti isolati, anonimi, suggestionabili, ignoranti e conformisti. Questa teoria è stata superata, quando ci si è resi conto che il pubblico non è una massa: ognuno di noi, infatti, sceglie a quali messaggi esporsi, sceglie cosa sentire, cosa vedere e con chi parlare. Ma questo, nel documentario, non viene considerato.

La teoria ipodermica è stata scavalcata perché ci si è resi conto che ognuno di noi si espone selettivamente: dire che è l’algoritmo a scegliere cosa vogliamo vedere è un approccio incompleto. Certamente Google, Facebook e tutti gli altri vivono di pubblicità e vogliono per questo tenerci “a bordo” per mostrarcene quanta più possibile. Certamente utilizzano i dati che noi forniamo loro per mostrarci solo ciò che potrebbe interessarci. Ma è davvero così pericoloso?

Un cartellone pubblicitario tradizionale viene posizionato dove tutti possono vederlo, magari a un semaforo o sui mezzi pubblici. Ma quanti tra coloro che vedono quel manifesto sono davvero interessati? Quanti ricorderanno quella pubblicità? Molto pochi, ma non potremo mai saperlo. Quando in televisione partono le pubblicità, cambiamo canale perché non siamo interessati. Su internet, questo non succede.

I social e la rete sociale non sono due cose distinte

Ma davvero “I social minano la rete sociale”? Questa frase viene pronunciata da uno degli intervistati. A questo punto è chiaro: quando utilizziamo il termine “social network” ci dimentichiamo il suo significato. Social network significa “rete sociale”. Di conseguenza, se iniziassimo a considerare il digitale come l’infrastruttura su cui depositiamo il nostro sistema relazionale e sociale, potremmo vedere che ciò che succede online non è altro che la trasposizione di dinamiche sociali già esistenti e consolidate.

Quando The Social Dilemma (o qualche post cringe sulla bacheca Facebook di un boomer) ci propone l’immagine di adolescenti tutti concentrati sui loro smartphone invece che intavolare conversazioni impegnate sulla biochimica dei vegetali con il proprio vicino, ci dimentichiamo che gli adolescenti di tutte le epoche hanno cercato di distanziarsi in oscure bolle senza parlare con i propri genitori. Magari quei genitori a tavola senza cellulare non saprebbero di cosa parlare ai loro figli, persino. Ci dimentichiamo che questi giovani sono nati in un mondo diverso e hanno codici comunicativi diversi: cosa che accomuna ogni passaggio generazionale.

Una dottoressa, nel documentario, dice di parlare quotidianamente ai figli di “dopamina” e degli effetti dell’ipersocializzazione resa possibile da queste infrastrutture. Non mi stupisco se i ragazzi preferiscono guardare meme su Instagram. Non è meglio imparare i codici corretti per comunicare con loro, piuttosto che aggredirli additando come stregoneria qualsiasi artificio scientifico arrivato ben dopo la nostra preparazione ad accoglierlo?

Di fatto, la tecnologia e il digitale hanno subito uno sviluppo esponenziale, velocissimo e quasi incontrollato: lo sviluppo non è stato accompagnato né dalla comprensione di chi non è nativo digitale – ossia le persone che dovrebbero insegnare agli adolescenti il controllo su un mezzo – né dalla legislazione, che dovrebbe tutelarci dallo sfruttamento dei nostri dati.

Pensateci: chi urla al complotto, al 5G, al “ci spiano” ha probabilmente una bacheca Facebook piena di “Scopri chi eri nella vita precedente” – un modo facile per ottenere dati da riutilizzare nel marketing.

The Social Dilemma tra etica e privacy: come evitare di bruciare internet al rogo

“Se non lo paghi, il prodotto sei tu”. Lo siamo davvero? Siamo davvero indotti da forze oscure a comprare quell’oggetto su Amazon solo perché Facebook ha capito che lo volevamo e ha deciso di farcelo vedere nella home? Perché se così fosse sarei piena di quegli oggetti strani che appaiono sui caroselli di Wish e nessuno ha mai chiesto.

La verità è che, nel corso degli anni, la sociologia e la psicologia sociale si sono rese conto – con studi approfonditi e non con teorie da tastiera – che cambiare un comportamento è davvero difficile se non si trova un pensiero predisposto a farlo. Non comprerò una pelliccia solo perché mi viene pubblicizzata, se sono eticamente contraria o non mi interessa. Non voterò quel candidato politico soltanto perché ha comprato uno spazio nel mio feed social: credetemi, i like non sono voti. I comportamenti sono una cosa molto più profonda e definita della nostra persona e non cambieranno grazie agli omini di Inside out del film. Sicuramente l’influenza delle interferenze russe ha avuto un effetto sulla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali Usa del 2016, ma non è davvero questa la ragione per cui ha conquistato quel numero di grandi elettori che gli ha conferito la vittoria.

Dove si trovano, tuttavia, i confini etici? Tristan Harris – il primo volto che appare nel documentario – aveva provato a impostare un modello etico all’intera infrastruttura di Google. Non è andato in porto perché “Google è cattiva”? O perché i confini dell’etica sono troppo legati alla società in cui intervengono? L’etica è la stessa in America e in Italia?

Per quanto riguarda per esempio la privacy, è chiara la differenza tra le società: mentre in America non esiste un limite legislativo, in Europa si sta provando a mettere in piedi una struttura di leggi che tutelano i consumatori e la loro privacy.

Semplificando, la legge dovrebbe provare a stare al passo con lo sviluppo della società. Uno strumento è pericoloso quando non si sa come usarlo e affrontarlo. Parlare dell’immagine narcisistica distorta e degli effetti sulla salute mentale è un conto, ma scaricarne la colpa ai social network è un altro paio di maniche.

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