Il buco – Un’esclusiva Netflix che non convince del tutto


Il protagonista da Il buco, film spagnolo di Netflix

(Credits: Netflix)

Il buco è la conferma che il cinema spagnolo non costituisce più solamente una scommessa per Netflix. Ora, visto l’enorme ritorno di pubblico derivato dalla distribuzione delle serie tv, divenute fenomeni planetari come La casa di carta, oppure Élite (entrambe nella top 10 italiana da diverse settimane), la più celebre piattaforma streaming americana sta investendo fortemente sull’industria cinematografica iberica.

Le ragioni sembrano chiare: da un lato la lingua, che favorisce la distribuzione in America Latina – un mercato molto ambito – e dall’altro la Spagna come modello ideale di Paese moderno globalizzato, multietnico, mentalmente aperto; fatto, però, di disparità e contraddizioni sociali (soprattutto economiche) non poco evidenti. Monarchici, ex franchisti, progressisti, separatisti, individualisti, socialisti che convivono insieme all’indomani di due profonde crisi economiche. Insomma, una pluralità di individui molto interessanti da un punto di vista tanto sociologico, quanto cinematografico.

Il buco e la sua (validissima) scenografia

Il buco di Galder Gaztelu Urrutia, menzionato e premiato in alcuni festival internazionali come quello di Toronto, costituisce una riflessione crudele delle disparità e delle diverse stratificazioni che costituiscono il tessuto economico-sociale della Spagna all’indomani delle due grandi crisi economiche degli ultimi 30 anni.

La scenografia della pellicola è innovativa, ma l’ambientazione no: contenere le diversità in una struttura uniforme come la prigione, dove le libertà civili sono annullate, non è uno spunto particolarmente innovativo, ma certamente lo è la struttura architettonica carceraria ove è ambientata la scena.

I detenuti sono stipati, a coppie di due, in celle rettangolari rivestite di solo cemento armato con all’interno i soli servizi igienici e i letti. Al centro della stanza, un enorme depressione verticale, “un buco”, appunto, sprofonda verso il vuoto, cosicché i detenuti possono intravedere i diversi piani dell’edificio e gli inquilini dei piani di sopra e di sotto fino a che occhio lo consenta.

Attraverso la cavità centrale della prigione passa giornalmente, dall’alto verso il basso, un ascensore che ha la funzione di approvvigionare i detenuti. Al piano di sopra un esercito di cuochi comandati a bacchetta ha preparato per loro le migliori pietanze della cultura culinaria spagnola distribuendole sulla piattaforma.

Un’altra trovata decisamente innovativa è costituita dalla regole della prigione in cui il tempo gioca un fattore determinante. Tempo che è da leggere in un’accezione non solamente cronologica, ma anche in una chiave più allegorica.

Un don Chisciotte moderno?

The man who killed don Quixote

Il don Chisciotte di Jonathan Pryce nel film di Terry Gilliam (Credits: Blogberth per la gif)

Il protagonista del film è un uomo sulla quarantina, di aspetto ordinario, ma dai tratti somatici singolari e romanzeschi, ispirati ai personaggi della letteratura spagnola che lui ama. Precipitato nel “buco”, è tenuto a fare i conti con le regole della prigione, sacrificando il proprio naturale umanesimo e il senso di solidarietà, per affidarsi all’istinto di sopravvivenza. Dalla sua cella osserva ed è parte di quell’ascensore sociale in perenne movimento che evidenzia la fragilità del benessere quotidiano.

Da missionario – e uso questo termine lasciandovi il beneficio del dubbio – idealista si immerge in un coacervo di diversità etniche e culturali, sentimenti di crudeltà ed individualismo cercando di portare spontaneità, solidarietà e salvezza.

In questo senso egli, nella prospettiva del regista, dovrebbe assomigliare a un ostinato don Chisciotte – interprete della fine del Rinascimento culturale europeo – e la sua missione a una chimera. Anche il suo aspetto ce lo suggerisce, come è possibile notare confrontando il protagonista de Il buco con l’iconografia classica del personaggio di Miguel de Cervantes – o semplicemente dai tratti di Jonathan Pryce in L’uomo che uccise don Chisciotte.

Nella lettura del personaggio credo che il regista abbia voluto ispirarsi ad altri grandi protagonisti di classici della letteratura europea (penso a Il conte di Montecristo di Dumas, ma anche moltissimo all’Inferno dantesco) compiendo un’operazione, a dire il vero, piuttosto forzata e raffazzonata. Vi spiego il perché.

Il buco: un vuoto artistico e lirico

La storia personale del protagonista, come degli altri personaggi, è assolutamente mancante, tanto che la trama patisce di un profondo senso di vacuità e illogicità.

In tutti i romanzi citati espressamente o non espressamente, il lettore ha modo di conoscere il protagonista, di giustificare le sue scelte, oppure di non condividerle. Del don Chisciotte de Il buco, invece, si intuisce una superficie di interessi e sentimenti, senza comprenderne le origini (un solo flashback in tutto il film).

La sceneggiatura è carente di dialoghi significativi e le trovate sceniche ben poco originali.

Osserverete il protagonista logorarsi mentalmente nel perdurare della reclusione, ma scontrarsi con le visioni lucide dei propri fantasmi. Una scelta registica, quella della messa in scena dei “fantasmi” mentali del protagonista, che cozza con il desiderio – che, dunque, appare forzato – del regista di volersi ispirare, citandolo, a un romanzo fortemente onirico.

Il protagonista de Il buco: un don Chisciotte moderno?

(Credits: Netflix)

Il vuoto artistico e lirico è il peccato originale di questo film che, col passare dei minuti, si riduce a uno splatter di eventi che provoca molte contrazioni allo stomaco, ma non agisce nelle profondità delle emozioni dello spettatore.

Sul piano razionale, peraltro, anche l’epilogo suscita molte perplessità, che per esigenze antispoiler, non posso rivelare qui.

Ad ogni modo vi consiglio di guardarlo, tenuto conto del fatto che asi tratta di un’opera prima comunque molto ambiziosa, e molto lontana dalla tradizione cinematografica iberica.

Un coraggio che va apprezzato e che, ogni tanto, anche da queste parti mi piacerebbe vedere.

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