The end of the fucking world: dal fumetto alla serie


La serie tv The end of the fucking world e il graphic novel da cui è tratta non potrebbero essere più diversi. Lo ha scritto il nostro Simone Galli nella sua recensione del fumetto, ed è praticamente impossibile non dargli ragione.
Perché al di là dell’ossatura narrativa comune, la scelta di Jonathan Entwistle – creatore della serie per Channel 4 / Netflixdi distanziarsi dal fumetto di Charles Forsman è quasi sistematica, non solo nell’impostazione generale ma anche in tanti piccoli dettagli.
Una scelta che alla fine si rivela vincente, perché regala due esperienze di fruizione completamente diverse tra loro – a differenza di tante trasposizioni che ricalcano in buona percentuale l’opera originale, salvo poi “tradirla” nello spirito o in alcuni aspetti fondamentali.
The end of the fucking worldL’elenco delle differenze, di conseguenza, è pressocché infinito, a cominciare dall’ambientazione: il graphic novel si svolge negli Stati Uniti, resi perfettamente riconoscibili grazie all’identificazione esplicita di alcuni luoghi (Tulsa, il Texas, ecc).
La serie invece è ambientata in un’Inghilterra indefinita, senza riferimenti geografici e anche per questo curiosamente simile agli Stati Uniti di un’avventura on the road… se non fosse per la guida a destra e il meraviglioso inglese british degli attori, che rendono impossibile dimenticare dove ci troviamo.
Subito dopo in ordine d’importanza c’è il fattore tempo: la lettura del fumetto dura quanto una singola puntata della serie (circa 20 minuti), che invece dal canto suo è articolata in 16 episodi suddivisi in due stagioni, solo la prima delle quali è tratta direttamente dal graphic novel.
Lo stesso discorso vale, a parti invertite, per il tempo della storia: il fumetto copre infatti un arco temporale di diversi mesi con sbalzi temporali non quantificabili dal lettore, testimoniando la scelta dell’autore di puntare su un’estrema sintesi narrativa oltre che stilistica.
Al contrario, la serie si svolge nel giro di pochi giorni, quasi in presa diretta. Pur senza raggiungere i livelli del 1917 di Sam Medes, infatti, seguiamo i protagonisti passo dopo passo, con la sola rilevante eccezione dello scarto temporale di due anni tra la prima e la seconda stagione.

The end of the fucking world: i personaggi

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Questa maggiore disponibilità di tempo consente di sviscerare completamente aspetti che il fumetto lascia alla fantasia e all’intuito del lettore il compito di completare, a cominciare da un diverso approfondimento dei personaggi secondari.
Figure che nel fumetto fanno solo da contorno, nella serie diventano comprimari dotati di vita propria, come nel caso dei genitori di Alyssa e James. La madre di lei e il padre di lui sono quasi co-protagonisti, mentre il padre di Alyssa subisce un’elaborazione abbastanza significativa.
Interessante notare anche l’assoluta differenza di caratterizzazione dei poliziotti che si mettono sulle tracce dei due ragazzi: espressione di un sistema violento e irrimediabilmente corrotto nel fumetto, volto di un’autorità severa ma giusta, quando non addirittura gentile, nella serie tv.

Anche i protagonisti, in ogni caso, escono trasfigurati da questa dilatazione temporale. Soprattutto perché, nella cornice caotica e folle comune a entrambe le storie, nella serie diversi eventi e azioni sembrano decisamente più “finalizzati” e razionali rispetto al fumetto, anche per esigenze di trama.
James, in particolare, nel graphic novel è un ragazzo incapace di provare sentimenti o emozioni, del tutto spaesato nei confronti della quotidianità, completamente disadattato – anzi forse sarebbe meglio dire inadatto, per vissuto emotivo e personale – rispetto alle esperienze della vita.
Il James del fumetto è dall’inizio alla fine un’espressione di disagio giovanile allo stato puro, quasi assoluto. Il protagonista della serie, per sua stessa ammissione, è invece uno psicopatico che – almeno nelle prime puntate – persegue una finalità ben precisa con folle lucidità.
Mentre il James della serie appare guidato da una logica, per quanto delirante, quello del fumetto fa dell’incertezza e dell’apatia esistenziali la propria cifra caratteristica, trovandosi continuamente in balia di circostanze più o meno casuali quasi fosse privo di una volontà propria.
Nella serie James è protagonista di una crescita a tutto tondo – il che la fa rientrare nel genere “romanzo di formazione”, per quanto sui generis – mentre nel fumetto non ha tempo di raccogliere i risultati della sua evoluzione, di cui si intravede solo la prima scintilla.
Il che comunque non è poco, anzi è un segnale di speranza, seppur effimero, del tutto inaspettato in una persona che pareva condannata a un eterno stato di indifferenza verso il mondo e anaffettività per le altre persone. Il segnale che qualcosa si è mosso a livello profondo.

Da parte sua, sia nel fumetto che nella serie tv, anche Alyssa cresce. Il suo percorso in The end of the fucking world è segnato da eventi meno traumatici, ma accompagnato da un’elaborazione emotiva più approfondita e costante, che nella serie tv arriva a compimento nella seconda stagione.
La scelta di dividere in due parti la serie, infatti, sembra rifletterne la struttura simmetrica: se James può considerarsi protagonista della prima stagione, nella seconda è Alyssa a prendersi decisamente il centro della scena, rispecchiando la differenza tra l’inizio e la fine del fumetto.
Tutto sommato, il graphic novel è un’opera decisamente più matura, un viaggio nelle profondità dell’animo umano in un battito di ciglia. La pubblicazione in volume unico, forse, non rende giustizia a un’opera che probabilmente richiede di essere fruita ed “elaborata” con tempi diversi, tanto che era nata come serie distribuita in mini-puntate di 8 pagine ciascuna nell’arco di un anno e mezzo.
La serie è sicuramente più convenzionale, ma forse proprio per questo riesce a coinvolgere di più, con una nota di merito per la splendida colonna sonora non originale. Mentre il fumetto trasmette un senso disturbante di alienazione senza rimedio (o quasi), la serie invita all’immedesimazione, regalando un’esperienza altrettanto intensa e imprevedibilmente romantica.

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