Aspettando gli Oscar 2019 – La Favorita di Yorgos Lanthimos


“La Favorita” di Yorgos Lanthimos si presenta come un punto di rottura nella cinematografia del celebrato cineasta ellenico e favorisce il pubblico nella comprensione della sua arte e delle tematiche principali del suo cinema, senza eccedere in voli pindarici e autocelebrazioni del suo talento.

Insomma, mi sembra che, pur mantenendosi fedele a se stesso, il regista abbia deciso di scendere dal piedistallo.

Ma vediamolo meglio insieme.

1. IL REGISTA.

Portando su di sé la faticosa etichetta di grande promessa del cinema europeo (anche se i mezzi a disposizione sono sempre stati quelli delle facoltose case di produzione americane), Lanthimos era stato capace di stupire, di sorprendere e turbare, fino al punto di infastidire, lo spettatore sia nelle tematiche che nella tecnica scenica (le carrellate dal basso e le riprese grandangolari sono, ormai, un suo marchio di fabbrica).

In realtà, il regista greco non è né un autentico innovatore della tecnica – sono moltissime infatti le tecniche che richiamano ad altri cineasti (Kubrick su tutti), né delle tematiche affrontate. Anche se il suo cinismo, la violenza sconsiderata, la sessualità, i dialoghi mutilati da grandi silenzi interrotti dagli strumenti ad arco e la voglia di dipingere un mondo divorato dal male (tanto che, talvolta, ricorda Lynch), il suo citazionismo, iniziavano a distinguerlo dal contesto.

In questo scenario tragico (tipicamente greco), come già rilevavamo con la visione de “Il sacrificio del Cervo Sacro“, veniva, però, spesso a crearsi una scollatura tra la solida architettura scenica e la psicologia dei personaggi, i quali, dipinti come esseri senza spina dorsale e perversi, si trasformavano in bestie con le quali lo spettatore riusciva difficilmente ad empatizzare.

Questo, almeno a mio modo di vedere, comportava un vuoto scenico inquietante ed irrazionale che non consentiva una chiara comprensione del sottotesto al punto da provocare un distacco nello spettatore.

Ne “La Favorita” il processo di esaltazione delle architetture sceniche (protagonista sono le geometrie strepitose del Castello di Hatfield in Inghilterra) che già si ritrovava nei film precedenti è questa volta perfettamente abbinata ad una solidissima scrittura ed un impianto narrativo finalmente comprensibile.

Chi ha amato le svolte metafisiche dei suoi precedenti film, invece, credo ne rimarrà vagamente deluso.

Ne “La Favorita”, infatti, a dominare è la disamina del mondo fisico ed, in particolare, delle dinamiche del potere politico.  Si potrebbe dire, in effetti, che tutto il film gioca sull’interpretazione allegorica che il regista fa del potere.

2. I PROTAGONISTI. Una menzione speciale per Olivia Colman.

La vera protagonista del film è la regina Anna (Olivia Colman, Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia), una donna/bambina mai cresciuta, capricciosa e irascibile, capace di improvvisi attacchi d’ira ma anche di gesti di profonda umanità.

La malattia che la affligge la rende un soggetto manipolabile, sola in un universo di uomini in parrucca (non per questo meno “maschili” nel senso dispregiativo del termine) e donne con nessuna dolcezza.

Derisa e reclusa nel suo Palazzo regge le sorti di un Impero da una stanza da letto, senza volersene mai davvero curare. Nel frattempo, le due principali potenze mondiali, l’Inghilterra e la Francia, si scontrano al di fuori, in una guerra che lei non sembra comprendere e nemmeno ha la forza di interrompere.

Se non fosse per la Lady cortigiana di fiducia (sempre fantastica Rachel Weisz) la sua vita si ridurrebbe ad una battaglia solitaria contro gli estemporanei attacchi di gotta e i repentini e devastanti cambi d’umore.

Nella sua figura di donna disabile e consumata dalla malattia si specchia il logorio del potere, inteso come fardello, solitudine e decadenza. La monarchia assoluta, infatti, non è altro che l’incarnazione del potere in un solo uomo che può tutto ma che non può niente contro un potere che, nel corso del tempo, si spersonalizza e diventa incontrollabile.

Olivia Colman è straordinaria nell’interpretare l’agonia di una donna sola che si prolunga fino alla paralisi permanente e la trasfigurazione. Nell’arco del film, infatti, coglierete perfettamente questa trasformazione.

Rifiutata dal “Buon Dio” e impossibilitata ad avere figli, senza un marito, Anna vive il dramma di una libertà da affetti materni che è anche terribile vuoto, cercando di colmarlo con la presenza delle sue cortigiane che diventano come delle compagne di vita.

Nel più classico dei “menage a trois” che si instaura con le due dame di corte Lanthimos è bravissimo a seminare il dubbio su quale delle due sia “la favorita” non solo della regina, ma anche del regista stesso.

Rachel Weisz è la consigliera più fidata della regina, portatrice dello scrigno dove sono custoditi i segreti più profondi del Palazzo e del Regno (il passaggio della chiave, quando sarà costretta ad abdicare a causa della subentrante Emma Stone, è un messaggio chiaro in questo senso).  Nella sua crudeltà e sete di potere manipolatrice è una creatura che rappresenta il mondo politico passato, sempre mostruosamente violento e sordo alle esigenze del popolo ma, d’altra parte, preparato al gioco e capace di gestire la responsabilità politica di una nazione.

Olivia Colman è la Regina Anna

Il suo rapporto ambiguo e funambolo con la Regina rimane sempre al confine fra la bieca meschinità e il sentimento, tanto da far credere, verso la fine, di essere, proprio per questa sua caratteristica, il più autentico.

Emma Stone è l’incarnazione del potere delle nuove generazioni. Dalla merda alla stanza della regina in pochi giorni. La sua scalata al successo è talmente repentina ed incontrastabile da sorprendere persino la scaltra consigliera.

Un potere che si cela dietro un’ingannevole gentilezza ed un apparente anticonformismo ma che, in realtà, riflette una ricerca dissennata del potere per il potere, della rivoluzione per la rivoluzione. Una scalata fine a sé stessa.

Una volta raggiunto il potere, infatti, Abigail (Emma Stone) dimostra di non sapere cosa farsene e di non esserne adeguatamente preparata.

3. IL MESSAGGIO FINALE DEL REGISTA.

Non si può non notare quanto il passaggio di consegne fra le due cortigiane costituisca, per Lanthimos, un’allegoria del passaggio dalla “vecchia politica” alla “nuova” e contemporanea (soprattutto quella europea, v. in Italia con la scalata al potere dello sconosciuto Di Maio). Ed è evidente che il regista voglia indurci a dubitare della bontà di tale passaggio.

In questo teatrino di Corte, in cui le protagoniste si sfidano a singolar tenzone, sarà, invece, proprio la Regina, la marionetta, la bambina manipolata e moribonda, a dare un ultimo e decisivo colpo di coda verso il finale, facendo capire chi comanda.

Il messaggio mi sembra chiaro: per quanto ciascun uomo possa crescere in popolarità e successo, oltreché in autorità, ci sarà sempre qualcuno o qualcosa più in alto di lui in grado di togliergli tutto. In definitiva, il potere più antico (quello ancestrale, se vogliamo, di cui è manifestazione il Re con la sua autorità temporale conferitagli, secondo i suoi teorizzatori, da Dio stesso), che rende da sempre gli uomini schiavi, è inestirpabile. C’è sempre un potere che si autoalimenta e non si estingue in grado di soggiogare gli uomini.

10 nomination all’Oscar fra cui Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice, Migliori attrici non protagoniste, fotografia, scenografia e costumi.

Buona visione a tutti!

 

+ Non ci sono commenti

Aggiungi