Recensione “Darkest Minds” di Jennifer Yuu Nelson


In una sala deserta, in un pomeriggio di metà agosto, mi sono recato al cinema per vedere questo nuovo film, tratto dai romanzi di Alexsandra Braken – autrice che non conoscevo – la cui produzione illustre (“Stranger Things” e “Arrival“) lasciava ben sperare sulla riuscita della pellicola.

Un virus di causa ignota provoca il decesso di una buona parte della popolazione giovanile del pianeta.

I sopravvissuti sono dotati di misteriosi poteri di cui è assolutamente ignota la provenienza.

Il governo americano, che li teme, decide di segregarli in campi di concentramento controllati da una task force composta da medici e militari, e di dividerli per colori, sulla base del rispettivo potere (c’è chi è dotato di un’intelligenza fuori dal comune, chi ha proprietà magnetiche e chi, invece, come la protagonista, è in grado di dominare la psiche altrui attraverso le proprie capacità telepatiche).

Alcuni di questi, identificati col colore rosso e l’arancione, vengono preventivamente riconosciuti da una accuratissima radiografia al cervello ed eliminati, perché considerati “pericolosi”.

La protagonista Ruby (nome che, peraltro, confonde, dal momento che “Ruby” significa “rosso”), servendosi dei suoi poteri, riesce a nascondersi nel compartimento sbagliato per sei lunghi anni, salvo poi essere scoperta.

La fuga, coadiuvata da un’infiltrata ex assistente sociale appartenente alla misteriosa LEGA (non è come pensate…), determina l’avvio di un percorso di formazione della ragazza, attraverso la conoscenza e l’incontro di tre suoi simili, anch’essi fuggiti dalle angherie dei cattivi.

Fra questo gruppo multietnico – discreta “paraculata”, perdonate il francesismo – spicca il personaggio di Liam, eroe e leader, gentile e bellissimo, di cui la protagonista, impaurita e diffidente verso il prossimo, finisce per innamorarsi.

Ciascuno dei membri di questo gruppo che si definisce, per bocca del suo stesso leader Liam, “orfano”, si coalizza e si trincera dietro l’amicizia coetanea per combattere contro un mondo esterno popolato dalla maggioranza adulta, che sembra desiderare solamente usarli per accrescere il proprio potere o fare loro del male.

Lo schema è il medesimo di altri film del genere come “Maze Runner“, “Super 8” e “Hunger Games“, anche se le modalità di messa in scena sembrano un po’ sbrigative e meno spettacolari – e la trama, che si districherà probabilmente in altri episodi – subisce delle imperdonabili frenate strizzando eccessivamente l’occhio al pubblico.

Abbiamo compreso, infatti, che nei confronti delle trame young adult e della giovane età, più in genere, l’essere umano è capace di provare un’ancestrale attrazione e che gli americani – Stephen King, in primis, se si pensa alla letteratura, ad esempio – maestri del business, hanno capito, prima di tutti, quanto la resa scenica di questo particolare genere sia capace di accrescere gli incassi.

Se è vero che, però, rappresentare al cinema la giovinezza significa rappresentare alcuni caratteri comuni come la scoperta, l’incertezza, l’amore e l’amicizia, è vero anche che ciascun giovane compie un percorso personale che in questo film non è adeguatamente valorizzato.

In questa pellicola che pur, a tratti, riesce ad indagare con efficacia i sentimenti dei protagonisti, ciò che emerge sembra essere perlopiù la superficie, come in un buono spot pubblicitario.

Non basta qualche battuta scontata sulla “diversità” di ognuno, se l’impianto della sceneggiatura non regge, se non si scorge una motivazione dietro le scelte dei protagonisti.

Non basta una buona prova dei due attori protagonisti (fra cui spicca quella del bel Harry Dickinson, Liam, reso noto al pubblico per l’interessante Beach Rats, acclamato al Sundance Festival).

Non basta un inizio scoppiettante, impreziosito da ottimi effetti speciali e colpi di scena, per diversificare questo “prodotto” da tutti quei precedenti che, da Steven Spielberg a Robert Zemeckis, fino a J.J. Abraham, si sono susseguiti negli ultimi trent’anni.

Da questo film e da molti altri di questo tipo, emerge, purtroppo, un appiattimento dell’età della giovinezza, data in pasto al grande pubblico come un buon prodotto pubblicitario di sicura riuscita sul mercato.

Ecco, allora, che qui non si riescono a scorgere le oscurità – suggerite, peraltro, dal titolo – i malcontenti e le tempeste sentimentali dell’età dei protagonisti, messe, di solito, in luce, da quei misteri incomprensibili e sovrannaturali tipici del genere della fantascienza.

Merita una menzione negativa la colonna sonora, che di solito è di importanza cruciale per il buon esito di un film di fantascienza e che, qui, invece, sembra l’edizione mal riuscita di alcune canzoni di repertorio di Miley Cyrus.

Si salva, però – ed è bene precisarlo – il finale: il sacrificio della protagonista è un atto di amore credibile verso l’altro che induce a qualche riflessione in più sulla natura dei rapporti umani.

Per ovvie ragioni anti spoiler, non posso rivelarvelo.

Sono sicuro, però, che, quando lo vedrete, susciterà interesse anche a voi.

Eccovi il trailer:

 

 

 

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