Isle of dogs – la sindrome Wes Anderson fra cinofili e cinefili.


Vorrei vivere in un film di Wes Anderson” cantano I Cani, celebre gruppo della scena new indie italiana,  nella canzone dedicata al celebre regista statunitense.

Impressionante, se si pensa che la canzone è uscita nel 2012 e, invece, solo pochi giorni fa, usciva nelle sale cinematografiche il film “Isle of dogs”, l’isola dei cani, dove i cani, appunto, sono gli assoluti protagonisti.

Pur se indubbi precursori di questa nuova pellicola,  I Cani non possono certo dirsi i pionieri di quella scoperta, banale e ormai ventennale per il cinefilo,  che si potrebbe definire la sindrome di Wes Anderson.

Non mi dilungo a riguardo, ma posso senz’altro affermare di essere vittima anch’io dell’incanto.

Wes Anderson è un cult indiscusso, un mostro sacro della cinematografia contemporanea.

Quando accenno alla parola “cult” riferendomi ad un’opera cinematografica ne voglio, in effetti, sviscerare l’etimologia.

Intendo per cult quei film, nati per essere rivolti ad una nicchia di pubblico, divenuti, nel corso degli anni, proprio grazie all’adorazione quasi religiosa di quel pubblico, un’icona sociale.

Wes Anderson ha uno stile inconfondibile, un marchio di fabbrica, un modo immediatamente riconoscibile di mettere in scena i suoi film e di caratterizzare i suoi personaggi.

Il problema dell’essere divenuti, ormai, un regista cult risiede, però, nell’esigenza di dover soddisfare un pubblico sempre più esigente ed affezionato, che conosce alla perfezione ogni singolo dettaglio della tua cinematografia.

Per questa ragione, credo che il regista texano abbia, in qualche modo, compreso di doversi prendere e di voler concedere una tregua piuttosto lunga a sé stesso e al suo pubblico di malati, prima di realizzare il suo nuovo film.

Il protagonista Atari con il randagio Chief, doppiato dall’attore Bryan Cranston, celebre protagonista della serie culto Breaking Bad.

Il suo nuovo film, l’Isola dei Cani, è un lungometraggio di animazione realizzato con la tecnica dello stop motion, ovvero del cosiddetto Passo uno, che sfrutta una sequenza di fotogrammi tutti differenti per secondo, dando così l’illusione allo spettatore del movimento.

Fra le prime tecniche utilizzate nei cartoni animati, consente l’utilizzo di composizioni  di fogli lucidi o di pupazzi per riprodurre un filmato animato.

A quattro anni dal successo internazionale di Grand Budapest Hotel, il vecchio Wes ha deciso di rituffarsi nel territorio dell’animazione, dopo il suo primo Fantastic Mr. Fox, con un film incentrato sul millenario e misterioso rapporto fra l’essere umano e il cane.

Nella cittadina di finzione di Megasaki, in Giappone, nell’anno 2037, il perfido e dittatoriale sindaco Kobayashi, figlio di una generazione di aguzzini e malavitosi affaristi della politica, emana un provvedimento (che nel diritto amministrativo italiano sarebbe tecnicamente chiamato “ordinanza contingibile e urgente”) di espulsione di tutti i cani dall’area metropolitana per evitare il diffondersi dell’epidemia del cd. tartufo canino.

Dopo mesi di propaganda anti-canina (che si manifesta, nella scelta politica di adottare i gatti a simbolo del partito politico di governo di maggioranza) e con il benestare della gente comune, le povere bestie, fra cui il cane dello stesso sindaco Kobayashi Spots, vengono rinchiuse in una gabbia e trasferite a mo’ di pacco mediante teleferica (un assoluto must della cinematografia Andersoniana) su un’isola ecologica in mezzo al mare, non lontana dalla città e sorvegliata da una task force municipale.

Da gigantesco e devastato non luogo, l’isola si trasforma, in poco tempo, in un teatro di vita dove i cani fondano una società primordiale, fatta di piccole tribù e di riti (sull’isola è presente un vero e proprio “Oracolo” – un carlino addomesticato che capisce la televisione – e un grande saggio, che portano sulle targhette i nomi mitologici di Oracle e Jupiter).

L’incontro casuale fra una di queste tribù, capeggiata dall’organizzatissimo e democratico Rex, (doppiato nella versione originale da Edward Norton, che già aveva interpretato l’identico capo scout di “Moonrise Kingdom”), Chief, un cane randagio rissoso e malato, e il giovane Atari, nipote adottivo del sindaco, genera una rivolta condotta dagli stessi abitanti dell’isola con il supporto di alcuni giovani universitari allievi di un Professore  che avrebbe scoperto e prodotto l’antidoto contro l’influenza canina.

Sono tantissimi i riferimenti storici e politici del film di cui sarebbe opportuno prendere nota, ma io ne sottolineerò, in particolare, tre:

il primo riguarda il riferimento all’esilio come strumento politico di allontanamento dei potenziali oppositori e dei “creatori di sentimenti” da parte dei regimi autoritari.

In passato, la misura dell’esilio è stata adottata nei confronti di letterati, scienziati, ovvero nei riguardi di tutti coloro che, con la loro opera, avrebbero potuto potenzialmente ledere o minacciare seriamente l’ordine costituito. Nel recente passato, l’isolamento concentrato di una categoria fu anche utilizzato nei confronti di coloro che minacciavano il cosiddetto “decoro tradizionale” della società: si pensi a ciò che capitò in Italia e in Germania agli omosessuali (vedi l’esilio sulle Isole Tremiti comandato da Mussolini); si pensi ai malati psichici confinati nei manicomi, o ai detenuti nelle carceri (le prime costruite proprio su delle isole), ovvero ancora agli ebrei e a tutte quelle popolazioni che sono state vittime di persecuzioni di massa.

Il secondo riguarda la crisi della democrazia e degli Stati e il progressivo ritorno ad un futuro fatto di enormi città-stato.

Come nell’Atene e nella Siracusa al massimo dell’espansione fecero i tiranni, la dinastia Kobayashi instaura nella contemporanea megalopoli di Megasaki un regime oligarchico e accentratore, nemico della democrazia, geloso del proprio potere e desideroso di contrastare con ogni forza la più grande conquista della democrazia: la libertà di espressione (che è ovviamente anche libertà di esprimere sentimenti di affetto nei confronti di un animale a quattro zampe).

Il terzo riguarda, invece, il riferimento al rapporto fra l’autorità contemporanea e la tradizione popolare. Durante il suo mandato, il sindaco Kobayashi mantiene in vita tutte quelle tradizioni come il Sumo,  il Sushi, le rappresentazioni delle lotte Samurai, in grado di generare una fonte di reddito per l’amministrazione, sacrificando, invece, tutte quelle che, per converso, non producono alcun guadagno.

Non è un caso, infatti, che Atari, giovane Balilla (o Davide) armato di fionda, riesca a ridestare la popolazione, non tanto servendosi della sua arma, ma piuttosto recitando un semplice haiku, ovvero una terzina che, pur costituendo un’arte molto influente nella cultura giapponese sin dal 1600, non produce e non ha mai prodotto denari in abbondanza per coloro che l’hanno diffusa.

Proprio la centenaria semplicità dell’haiku, abbinata alla centenaria naturalezza e semplicità del rapporto che lega il cane al proprio padrone, sono poste a fondamenta di una rivolta popolare non violenta, unico ed efficace strumento di sovversione dell’ordine costituito.

Correte a vederlo, non tanto per sorprendervi delle novità narrative. Troverete, infatti, ogni cliché Andersoniano in questo film. Badate, però, all’immagine, all’incredibile verosimiglianza degli occhi dei cani professionisti, al dettaglio del pesco che sfiorisce al pronunciarsi dell’haiku da parte di Atari e alla stupenda composizione di bottiglie di vetro che funge da rifugio alla simpatica banda di protagonisti.

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