X Files 11: I want to believe


locandina X Files 11

FOX Studios

X Files 11 ha inaugurato l’arrivo del nuovo anno nelle produzioni della televisione generalista statunitense, nello specifico la stagione invernale di Fox. In un panorama televisivo decisamente cambiato rispetto all’originale triumvirato made in USA di ABC, CBS, NBC con l’aggiunta del quarto polo negli anni ’80 di FOX, la tv generalista ora si vede invadere il mercato dell’audience dalla miriade di nuove piattaforme che hanno reso il suo “primordiale” potere un marginale frammento nell’universo produttivo di serie televisive statunitensi.
Lo scorso anno cercando di inseguire gli ascolti persi nell’infinità celeste delle nuove produzioni seriali, Fox aveva resuscitato gli X Files dallo scantinato con una miniserie dal sapore nostalgico, nel tentativo di immettersi nella corrente che caratterizza questi nuovi anni ’10: l’effetto nostalgia.
Un tentativo disastroso, quella che ora è divenuta la decima stagione di uno dei monumenti della tv anni ’90 risulta la brutta copia di uno dei programmi che hanno plasmato la forma della serialità televisiva così come la conosciamo ora. Un esempio concreto: con X Files si inizia a parlare di arco narrativo di una serie, scrollandosi di dosso l’ingombrante e ormai perduta distinzione tra serial e serie. Ora questa innovazione che ha portato al formarsi nella batteria degli X Files nomi importanti per i successi(vi) prodotti, uno tra i tanti Vince Gilligan, sì quello di Breaking Bad; ecco che nella decima da dimenticare stagione tutto ciò si perde.
X Files 11 si apre ricordandoci che quello che avevamo visto l’anno precedente è un incubo e questo è già un buon inizio.
Da adesso in poi si parlerà di quello che è andato in onda finora di X Files 11, quindi nella remota possibilità che non foste sintonizzati col cambio dell’ora della East Coast e viviate invece come comuni mortali il vostro presente non retrodatandolo alle sei ore di anticipo che vi separano dalla visione della messa in onda statunitense, vivendo in un eterno limbo di presente passato, questo discorso potrebbe essere un unico continuo spoiler su X Files 11.
Si ricomincia così dunque riprendendo con “My Struggle” terza parte (episodio 1 di X Files 11) che scopre la natura in parte allucinogena della decima stagione. In un inquietante voiceover, il cui effetto d’inquietudine non è tanto il contenuto della narrazione ma l’apparente trasformazione di Fox Mulder in un Humphrey Bogart del cinema noir, con tanto di monologo interiore da detective maledetto, ci viene spiegato il finale della scorsa stagione come frutto di una visione di Scully introiettata nella sua mente dal figlio abbandonato William.
Il primo episodio di X Files 11 appare confusionario nella forma e nel suo intento, che è proprio quello di mischiare le carte in gioco donandoci la bellezza di non una ma due parti cospiranti sul futuro apocalittico dell’America di oggigiorno.
Il secondo episodio “This” dona ulteriore spazio alla realtà alternativa ispirata questa volta dal sogno tecnologico della dimensione virtuale con il ritorno dal regno dei morti di un caro personaggio dell’epoca che fu, uno dei Lone Gunmen, Langly che chiede l’eutanasia dal mondo finzionale da lui costruito e che ora lo tiene prigioniero nelle mani di un’agenzia filogovernativa.
Il terzo episodio “Plus One” è il risultato di una realtà aumentata frutto del tema del doppio, un viaggio nell’inconscio nell’immagine del doppelgänger come espressione rovesciata del buono all’interno di ogni persona. Tra schizofrenia e alterata percezione del reale si ha una classica trasposizione di uno dei topos della fantascienza che immagina la malattia mentale come perfetto mezzo razionale per l’entrata in un mondo altro.
Il quarto episodio “The Lost Art of Forehead Sweat” esplora la storia come realtà alternativa attraverso l’effetto Mandela, il ricordo come una dimensione che altera il piano del reale. Questo capitolo di X Files 11 risulta essere esplicativo sul discorso che il programma sta portando avanti in questa stagione ovvero la nozione di realtà come costrutto socio-culturale con cui poter giocare in una serie che ha radici nel fantascientifico, quindi in un genere che nasce da una concezione creativa che vede la rigida logica della scienza a supporto della creazione fantastica. L’episodio risulta un pastiche di luoghi comuni della fantascienza associati sul campo visivo al cinema degli anni ’50 di questo genere con la paranoia ad ingombrarne lo schermo in un riflesso della caccia alle streghe di stampo maccartista, un parallelismo all’America di Trump perfettamente riuscito, in cui si rintraccia la politica liberal dell’ideatore degli X Files, Chris Carter, lo stesso che aveva fatto risuonare la musichetta inquietante della sigla della serie sul primo piano del ritratto fotografico del presidente Bush nel film “I want to believe”.
“The Lost Art of Forehead Sweat” risulta una perfetta immagine autocritica delle teorie cospirazioniste , a cui X Files deve molto del suo immaginario, che divengono nel mondo della post- verità uno strumento in mano al potere per discreditare qualsiasi assunto dato di fatto; la storia che viene a delinearsi come una possibile opinione in una miriade di altre valide alternative; stupenda l’ideazione del Dottor “They”, con successive frasi fatte: “They did it”.
Nel dare vita ad un universo di “alternative facts” Chris Carter ridona linfa vitale alla sua creatura e così X Files 11 si trova a guardare in faccia il suo presente, che vede un FBI minacciata dallo stesso potere burocratico-statale in cui era nata, e a scrollarsi  di dosso l’effetto nostalgico che lo portava a rivangare i fasti che furono( vedi decima stagione) rimanendo in una “freezed history”. Nello specifico la prospettiva postmoderna che vede tutto fluire nel presente , donando alla Storia carattere astorico continuando a ricontestualizzarla, a volte in un processo che ne vede il rovesciamento di senso; si viene, in  particolare col quarto episodio di questo nuovo X Files, ad utilizzare la visione postmoderna come mezzo per creare un discorso satirico che rifletta il suo operare rendendone visibile il suo paradosso, in un esempio si cita Orwell come fosse Welles con intenzione di dar senso al lavoro di H.G. Wells per poi giustificarsi non facendolo.
L’ultimo episodio di X Files 11 andato in onda è “Ghouli” in cui si riprende il tema del sogno, della visione, come stadio alterato della realtà tutto questo con una figura che desta attenzione e mistero: il figlio abbandonato, scomparso, riapparso, morto, resuscitato di Scully e (forse) Mulder, William/Jackson. Il personaggio di William risulta essere elemento critico per la risoluzione conclusiva di X Files 11 per ora sappiamo solo che ha deciso, dopo aver perso la famiglia adottiva e scoperto la potenziale portata distruttiva della sua capacità di alterare la realtà percepita da quelli attorno a lui, di girovagare per l’America in attesa del momento plot twist di X Files 11.
Il prossimo episodio sarà domani e con “Kitten” si andrà ad esplorare il recondito passato di Skinner, sperando che abbia buoni e interessanti scheletri nell’armadio e terrificanti mostri nell’inconscio.

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