Lo spettatore e la memoria del giocattolo


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(Credits: Kenner; fonte: Battlegrip.com)

C’è una scena di un piccolo film americano indipendente dove un personaggio che si pretende viaggiatore del tempo spiega quali sono i possibili abusi di potere da evitare avendo ottenuto tale capacità. Potendo tornare indietro, la tentazione sarebbe quella di dire a sé stesso: «Ehi, lascia le tue statuette di Star Wars nella confezione perché varranno come fossero centinaia se sono super immacolate». In questa battuta è contenuto molto del senso della stagione cinematografica che stiamo vivendo. Il fatto che venga da un film low budget, una love-comedy fantascientifica come “Safety not guaranteed”, può far riflettere ulteriormente sulla rilevanza di un sentimento nostalgico che pervade la memoria dello spettatore comune. Non rivolgendosi esclusivamente a una nicchia di esperti, è sempre più evidente come l’esperienza di tali film ponga spesso al centro la messinscena di universi di valore condivisi, memorie di oggetti popolari che spesso accompagnavano la visione o la completavano fuori dalla sala attraverso forme di ritualità.

È vero, l’estate appena trascorsa ci ha fatto sembrare di vivere a cavallo fra gli anni ottanta e i primi novanta. Ma se questo sentimento emerge chiaramente dalla generazione di chi scrive, la domanda è come possono queste scelte aver ricevuto successo fra un pubblico eterogeneo e, soprattutto, più giovane, che non può avere una conoscenza diretta, conoscenza che spesso, siamo franchi, manca anche a chi è “anagraficamente” coinvolto: non tutti abbiamo posseduto quelle statuette. La domanda successiva allora è quale può essere l’aspetto strategicamente coinvolto, per l’industria hollywoodiana, nel far rivivere questi sentimenti in modo cosi insistente attraverso il rilancio di franchise considerati ormai conclusi da anni. Dobbiamo parlare ancora dell’ennesima occasione di product placement? Etichetta appagante e sicuramente sempre valida sotto molti aspetti, la quale però rischia di appiattire ogni possibile prodotto mainstream a una forma di maxi spot pubblicitario o a un cinema-vetrina per gli acquisti.

Vogliamo provare a pensare che le cose siano un po’ più sfumate di cosi utilizzando alcuni esempi recenti. Il punto di partenza è capire in cosa consiste il recupero, la celebrazione di quelle action figure “che oggi valgono una fortuna”, in termini narrativi. Si tratta prima di tutto di riconsiderare i cosiddetti prodotti collaterali, quelli formati dal merchandising ufficiale, dalle novellizzazioni, dai fumetti e dai videogame, non più come “opere derivate” ma come materiale primo con la cui memoria l’industria, al pari dello spettatore, si trova a fare i conti. È sicuramente il definitivo superamento di un modo di pensare. Non più il racconto filmico e i suoi derivati, ma il film che deve farsi portatore di un’eredità condivisa fra differenti testi di cui il suo pubblico, e soprattutto il suo fandom, è stato testimone dell’accumulo durante gli anni.

Un esempio su tutti di questo passaggio. In una scena di “Jurassic World” uno dei personaggi secondari presenta una maglietta con il logo del Jurassic Park, il primo parco realizzato nel 1993. Ora, narrativamente questa evidenza non rappresenta una rottura e, al contrario, dal momJurassic World - Jake Johnsonento in cui già nel primo film della serie tale logo era presente tanto negli oggetti interni al racconto quanto nei prodotti di merchandising venduti nel nostro mondo reale, l’inserimento nel nuovo capitolo porta a compimento un ciclo: il cortocircuito fra la memoria dello spettatore e le pratiche odierne di collezionismo nostalgico dei fan si compie. Il risultato è un “innesto” concreto della nuova storia in un universo complesso che ad essa preesiste. O anche, viceversa, la volontà di comprendere la prima storia all’interno di una nuova e più vasta narrazione. Non più solo continuità. I nuovi sequel (sempre più chiamati reboot, ma sarebbe meglio approfondire separatamente il discorso) sono necessariamente portati a fare i conti con l’accumulo di memorie. Se però questo è stato gestito bene in un franchise come questo, che ha sfruttato intelligentemente i 14 anni trascorsi dal terzo capitolo e i 22 dal primo, non sempre si mostra di avere le stesse capacità. E’ il caso di “Terminator Genysis” che, a fronte dell’esplosione di una narrazione fortemente incongruente, che ha visto continui rilanci e riletture fra serie, trilogie inconcluse ecc., e non sapendo quale effettivamente privilegiare, opta per una sorta di reset o, in termini fumettistici, what if. Giocando fin troppo liberamente con linee temporali alternative, il film fatica a contenere tutta l’eredità frammentata e prevede enormi buchi logici e di scrittura, camuffandoli sotto le mentite spoglie dei viaggi nel tempo, non volendo mai realmente abbandonare le sue situazioni tipiche, i suoi cliché e i suoi spazi. Insomma, sembra che per i produttori non ci sia Terminator senza Arnold “I’ll be back” Schwarzenegger.

E qui troviamo un altro aspetto principale: Terminator come molti altri esempi recenti, non è in grado di generare una continuità vera e propria perché non sceglie mai quale memoria privilegiare. E’ il problema del canone. Includere ogni volta tutto quello che è stato fatto e riproporre all’infinito la stessa storia è il grande limite ma anche la modalità con cui naturalmente opera il revival. Nonostante si stia parlando di saghe relativamente recenti, nate tutti dopo quella grande rivoluzione che fu il primo “Guerre Stellari“, non tutte nel passaggio alla narrazione espansa dell’era digitale sono riuscite a mantenere una certo livello di coesione. Il risultato paradossale può essere quello di precipitare al modello preesistente, quello che vedeva il marchio semplicemente applicato su ogni testo.

Come può allora il cinema riprendere in mano i destini di un franchise? Proponiamo di definire due vie: Il “metodo Disney”, che con l’acquisizione di Star Wars sceglie deliberatamente di porre dei confini, di proporre una nuova timeline canonica dell’enorme universo espanso. Escludendo un grande numero di esperienze videoludiche, romanzi e fumetti, viene arbitrariamente scelto ciò che farà parte dell’eredità ufficiale alla base della prossima trilogia cinematografica e ciò che sarà semplicemente relegato “al di fuori”. Dubitando che questo possa generare chiarezza, in realtà può più comunemente essere vissuto come un colpo di mano del nuovo proprietario del brand, più che un concreto aiuto. Ai fan l’ardua sentenza

La seconda via può trovare il suo campione in “Mad Max: Fury Road”: quella che potremmo qui chiamare “reincarnazione“. George Miller riprende in mano l’immaginario da lui creato, seminale per ogni narrazione post-apocalittica venuta dopo il primo film, e lo perfeziona, lo espande. Mad-Max-Fury-Road-Trailer-speciale-saga-e-parodia-Mario-KartCoraggiosamente non sceglie di ignorare il lascito di innumerevoli videogame che si sono a loro volta fortemente ispirati a lui, (ad esempio le città che vengono nominate nel film hanno nomi mutuati dalla loro funzione: Bulletfarm, Gastown, che ricordano direttamente quelli di un qualsiasi videogame che vuole essere dello stesso genere), al contrario è come se decidesse che il cinema è in quel momento in grado di riprenderselo e farlo suo con determinazione. Lo spettatore si sente a casa. Tanto quello più giovane che non ha mai visto uno dei precedenti capitoli ma è fortemente coinvolto negli scenari e nelle situazioni di un mondo che ha vissuto in innumerevoli (videoludiche) espressioni, quanto il conoscitore della trilogia classica che viene come riassunta e riproposta allo stesso tempo. C’è una fiducia in quei personaggi, in quelle storie e in quei mondi che giustifica una ripresa, una nuova proposta. Mel Gibson lascia il posto a Tom Hardy che a sua volta lascerà il posto alla controparte digitale nel videogame in uscita che, osserviamo bene, non è la riduzione della pellicola ma una storia indipendente. La memoria del mondo e il nome di Mad Max sopravvivono, preesistono alle sue nuove incarnazioni. È l’idea espressa dal concetto di “cinema grand master” in cui sembra volersi riaffermare «la persistente centralità del discorso filmico, una tensione almeno ideale (nostalgia?) verso un’organicità dell’esperienza di fruizione» e che quindi consente «di contrastare la volatilità propria delle culture digitali; di sedimentare lungamente nella memoria degli spettatori»[1]. È il cinema che esclama, come direbbero i personaggi di Mad Max, «ammirami!».

Ecco allora come è giusto ricordare che non è possibile separare analogico e digitale. I ricordi innescati dalle nuove esperienze digitali molto probabilmente andranno a recuperare oggetti materiali, quelle stesse narrazioni “espanse” che circondano da sempre l’esperienza filmica, che la rafforzano, la ripetono, la comprendono e la arricchiscono. Si capisce ora meglio come le statuette di Star Wars di cui parlava il nostro viaggiatore del tempo in apertura, saranno allora quell’oggetto di inestimabile valore affettivo, economico, e, non ultimo, cinematografico, depositari di memorie costantemente recuperate per nuovi spettatori. Fino al giorno in cui sentiremo esclamare da un qualsiasi ragazzino in un centro commerciale: “ehi, era ora che facessero un film su Star Wars, dopo tutti questi videogiochi!” (true story).

[1] Mariagrazia Fanchi, Cinema Grand-Master

3 Comments

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  1. Fabio Pirola

    L’aspetto emotivo rimarrà sempre una componente imprescindibile delle esperienze cinematografiche, ed è normale che il franchise faccia leva su questo… e poi c’è anche la nostalgia di un passato recente, di un’età passata in cui si era più spensierati e felici… e i film e i giocattoli ci portano tutto questo. Bellissimo articolo!

  2. Wiccio

    Si può e si deve parlare di product placement. Che sia architettato in fase di sceneggiatura o meno è inevitabile: l’oggettistica da collezione non tarderà l’immissione nel mercato, nelle nostre menti dapprima e nelle nostre mensole casalinghe in seguito (oppure custoditi gelosamente in un forziere all’interno di un rifugio antiatomico!). C’è chi ancora li definisce “giocattoli” ma credo sia un termine che pian piano scomparirà dai vocabolari.
    E per quanto, in fin dei conti, di mera trovata commerciale si tratti, qualora non fosse prodotta i fan – ma probabilmente anche il visionatore non definibile fan – ne lamenterebbe l’assenza.
    Mi dispiaccio solamente di avere collezionato le figure dei Power Rangers: avrei potuto scegliere un franchise più fortunato!

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