Politically correct: come, dove, quando – Se le minoranze non vengono rappresentate


Si è molto parlato, recentemente, dell’ombra che aleggia sul politically correct, soprattutto in televisione.

Quando troviamo immagini con bambini di diverse provenienze, ci si batte il petto e si urla a gran voce: “Siamo in Italia, mostriamo bambini italiani!”/ “Che bisogno c’è di inserire un ne**retto nella pubblicità dei biscotti?”/ “Tutta colpa del politically correct!”.

Cari miei, vi siete fatti un giro nelle scuole italiane? Avete notato che – forse – la composizione mista delle pubblicità comincia a rappresentare una realtà… concreta?

Il mese scorso ho cercato di tratteggiare il tema della costruzione identitaria, argomento complesso e vastissimo. Ne ho parlato in qualità di madre che, all’interno di una coppia mista, cerca di trovare equilibrio fra le due culture con le quali le proprie figlie devono interfacciarsi, ogni giorno.

Un aspetto che merita un capitolo a sé, tuttavia, è quello della rappresentazione. Come identificarsi in un modello che stenta a prendere piede in Italia? E, quando viene presentato, si grida allo scandalo?

Di empatia, politically correct e complotti assurdi

La filosofia genitoriale scelta da me e mio marito è quella della sincerità. Cerchiamo di affrontare, passo dopo passo, questioni spinose che ci si presentano davanti quotidianamente col sorriso sulle labbra, insieme a parole dirette e chiare.

Io amo le storie, ma sono convinta che ci sia un tempo per i racconti, i libri, la fantasia, e un momento dedicato alla realtà. Quando parliamo di pelle con nostra figlia, soprattutto, non indoriamo la pillola, non inventiamo storie magiche per cui la sua mamma è bianca e il suo papà è nero. Quello che possiamo fare, però, è cercare di trovare modelli di riferimento in cui le bambine, per prime, si possano rispecchiare.

Due sorelline leggono Piccole Donne. La grande chiede alla piccola con quale delle quattro protagoniste si voglia identificare

“Chi vuoi essere tu?” (Credits: Carola Astuni)

Ed è qui che parte la complessità di vivere in un Paese in cui si è considerati minoranze: i modelli in cui identificarsi sono inesistenti, o quasi. Opinione di molti, infatti, è che certe realtà non debbano essere rappresentate, poiché parte di qualche complotto (vedi teoria del gender o piano Kalergi, entrambi invenzioni senza il minimo appiglio con la realtà). O, ancora più semplicemente, lo si faccia solo in nome del fantomatico, odiatissimo, politically correct.

Abbiamo mai provato a pensare che dietro a quello che identifichiamo come politically correct (termine che personalmente non sopporto) ci sia la rappresentazione o la difesa di persone in carne ed ossa, con sentimenti, difetti, ambizioni e progetti? Sono convinta che manchi, molto spesso, un po’ di empatia nei confronti delle persone coinvolte in queste discussioni.

Perché non proviamo a chiedere, piuttosto che dare risposte senza preoccuparci della loro sensibilità?

Mi guardo allo specchio: chi vedo?

Zua, nostra figlia di tre anni, ha iniziato a pormi una domanda che, credo, le sta gironzolando per la testa da un po’ di tempo.

“I nonni hanno la pelle beige? E lo zio Pietro? Gli zii in Mozambico hanno la pelle come la mia?”.

Lei conosce già la risposta a queste domande, ma ne vuole costante conferma da me. Ormai è diventato quasi un gioco (quando me lo chiede, ridacchia). Qualcuno potrebbe pensare che sia una sofferenza dirle “No, tesoro, non hai la pelle di papà, nemmeno quella di mamma. Ma neanche quella dei nonni, degli zii o dei tuoi cugini”.

Le rispondo dicendole le cose come stanno: no tesoro, il colore della tua pelle è unico. E ora, alla tua unicità, si è aggiunta quella di tua sorella.

“Va bene, mamma. Siamo una cosa sola”.

Libri e buoi dei Paesi tuoi

Se dentro le mura domestiche costruiamo il nostro mondo, coi nostri libri adeguatamente scelti, le bambole e i giochi selezionati con cura, gli occhi dei curiosi sono sempre in agguato. Le pubblicità e i film non inclusivi, le domande inopportune smontano quell’impalcatura di autostima che lentamente cerchiamo di creare in casa.

Perché è così importante ritrovarsi in un libro? O vedere qualcuno che ci somiglia in un film? Personalmente, non mi ero mai posta il problema. Ma è ovvio: per me, donna bianca con famiglia Mulino Bianco, il problema non è mai esistito.

Quale barbie scegliere, fra quelle regalate? Una bionda liscia, o una super bionda super liscia? (Credits: Carola Astuni)

Io ho sempre adorato Piccole donne: ho divorato il libro mille volte, così come il sequel, per non parlare delle varie versioni dei film. Da quello con Liz Taylor, a quello con Winona Ryder. E, manco a dirlo, mi sono sempre identificata in Jo: la ribelle, la scrittrice, l’insegnante.

Ma, soprattutto, quella che poteva anche fisicamente assomigliarmi.

Molti potrebbero obiettare dicendo che sono esagerata, che non è così automatico, che ci si può ispirare anche a modelli che fisicamente non ci assomigliano per storia o estetica. Tutto vero, ma la consapevolezza di bambine o bambini è estremamente diversa da quella di un adulto. E più sono piccole o piccoli e più questa differenza è forte.

Posso fare un esempio semplicissimo: Zua, ogni volta che leggiamo dei libri, cerca una famiglia come la nostra. E difficilmente la trova. Un giorno ho trovato un libro con una bimba riccia come lei, con la mamma bianca e il papà nero. Non credo di poter trascrivere esattamente la gioia nei suoi occhi la prima volta che l’ha visto, ma posso solo dire che io mi sono commossa nel vederla così felice.

Politically correct? No: la parola chiave è inclusività

L’accesso a determinati libri non è così immediato: bisogna andare a ricercarli con attenzione. Su Instagram ho scoperto la pagina di Marzia Raimondo (@increlibrile), mediatrice culturale palermitana, giovane mamma di un bimbo afroitaliano. Partendo proprio dai bisogni di suo figlio, ha scelto di condividere preziosissimi consigli su albi illustrati inclusivi, che mostrino bambini e bambine di diverse provenienze, insieme a letture che promuovano la parità di genere.

Pensate che sia una cosa scontata? Purtroppo i libri per bambini nascondono moltissime insidie, luoghi comuni che tendono a rafforzare stereotipi, non aiutando il proprio giovanissimo pubblico a sentirsi parte integrante del proprio Paese. Il meticoloso lavoro che fa Marzia dovrebbe essere fatto anche da insegnanti e genitori.

E no, non è una questione di politicamente corretto. Stiamo parlando di rappresentare migliaia di bambini che vivono nel nostro Paese ma, a quanto pare, il loro livello di melanina, la forma dei loro occhi, la loro composizione familiare sono tutte cose al di fuori dai canoni socialmente accettati.

Politically correct o… cosa?

Annalisa Chirico, giornalista che scrive per Il Foglio, ha addirittura considerato lo spot di Next Generation Ee come “Il declino culturale e politico dell’Europa in una foto”. La foto di un padre che tiene in braccio il figlio. Ah, giusto, il padre è nero e il figlio pure, forse misto, poco importa.

L'imbarazzante post su Facebook di Annalisa Chirico a proposito di Next Generation Ue, legato alla Commissione Europea

L’imbarazzante post su Facebook di Annalisa Chirico a proposito di Next Generation Ue (Credits: pagina Facebbok di Annalisa Chirico)

Il post è talmente intriso di qualunquismo che faccio davvero fatica a commentarlo. Per Chirico questa foto è imbarazzante perchè i protagonisti non sono bianchi. Forse la giornalista non si rende conto che l’immagine rappresenta una famiglia come tante, in Europa. Basterebbe farsi un giro in Francia per rendersene conto, dove le famiglie miste non fanno più provincialmente scalpore come in Italia.

Per aiutare Chirico – e chi la pensa come lei – a fare uno sforzo sulla realtà che ci circonda, suggerisco il progetto fotografico Let’s talk about race di Chris Buck: una serie di immagini che mostrano una realtà capovolta, per cercare di mostrare a chi è bianco come ci si può sentire nei panni delle minoranze. L’immagine più emblematica è sicuramente quella della bimba bionda che scruta un’intera parete di bambole, tutte nere, senza possibilità di sceglierne una simile a lei.

Una riflessione in merito

Quando parliamo di politicamente corretto, molti pensano che sia una mera questione di etichette. Le pubblicità anni Novanta della Benetton erano sinonimo di inclusione? O solo necessaria volontà di mostrare – indipendentemente dal messaggio sociale – una vasta gamma cromatica?

Vi rimando in merito a un interessante episodio del podcast Sulla razza, in cui una modella racconta la sua esperienza in merito nel campo della moda.

Per concludere: rappresentare le molteplici sfaccettature del nostro mondo è una necessità. Cerchiamo di metterci nei panni di chi, per svariati motivi, non viene quasi mai rappresentato. Figlie e figli che crescono in famiglie omogenitoriali, bambine e bambini con disabilità o persone nate e cresciute nel nostro Paese, ma che continuano a sentirsi straniere per il colore della pelle o forma degli occhi.

Ci proviamo?

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