“Ma io, chi sono?” – La costruzione identitaria nelle famiglie multiculturali


La costruzione identitaria è un processo complicato per i figli nati in una famiglia multiculturale. Io e mio marito lo sperimentiamo tutti i giorni: si tratta di una mediazione continua fra due mondi, due (o più!) lingue, codici di comportamento e tradizioni diverse che – talvolta – risultano addirittura essere in contrasto fra di loro.

Quali sono i fattori che influenzano la costruzione dell’identità? E, soprattutto, cosa possono fare i genitori per accompagnare i figli in questo tortuoso percorso?

Le seconde generazioni e la costruzione identitaria

Quando si parla di costruzione identitaria, il dibattito si fa complesso intorno a quelle che vengono comunemente definite “seconde generazioni”: figli di coppie miste, figli di genitori entrambi immigrati, e così via.

Il documentario Crossing the color line di Sabrina Onana vuole indagare proprio questo: come mi percepisco? Come vengo considerato dalla società? E, soprattutto, cosa succede se questi due aspetti non coincidono?

Tempo fa, guardavo con mio marito Black-ish, una sitcom che racconta con pungente ironia il quotidiano di una famiglia afroamericana benestante. Vengono affrontate molte tematiche: dalla questione razziale alla parità di genere, dal classismo  all’educazione dei figli.

La protagonista – una dottoressa, moglie e madre, interpretata dalla talentuosa Tracee Ellis Ross – è biracial (lett. birazziale).

La dottoressa Rainbow – detta Bow – incontra per la prima volta la fidanzata del figlio. Con sua sorpresa, scopre che la ragazza è bianca. Interviene la suocera che le fa notare che anche lei, Rainbow, è bianca. Per Bow è nuovamente uno shock: lei si sente nera, ma i neri la percepiscono come bianca.

L’episodio, intitolato proprio “Being Bow-racial” prosegue mostrando la crisi d’identità della protagonista che, nonostante l’età adulta, ancora non sa come definirsi.

Bow, infatti, è figlia di coppia mista: madre nera, padre bianco.

Costruzione identitaria: ma io, chi sono?

Per coppia mista si intende, in generale, una coppia formata da persone che hanno origini/culture/religioni diverse. Nel nostro caso specifico, siamo una coppia multietnica e multiculturale. Origini e culture diverse, ma con la stessa religione.

Sia mio marito che io siamo cresciuti nei nostri Paesi d’origine. Jo, mozambicano, arrivando in Italia da adulto, non ha avuto difficoltà a costruire la sua identità culturale, sebbene faccia parte di una minoranza, oggi, qui in Italia. Noi genitori abbiamo ben presente cosa siamo e cosa rappresentiamo.

Ma possiamo dire lo stesso delle nostre figlie?

Quando Zua, la nostra primogenita, ha iniziato a parlare, le abbiamo insegnato una frase molto difficile. Ci ha messo del tempo, ma ora la dice alla perfezione e con grande orgoglio: “Sono italo-mozambicana”.

Perché era così importante che la imparasse?

Innanzitutto perché le persone, guardandola, danno per scontato che non sia italiana. Viste le costanti domande che la gente ci pone per strada, volevamo che fosse in grado di rispondere direttamente lei, senza tanti giri di parole.

E, soprattutto, perché avere un aggettivo che definisce chiaramente le sue origini rappresenta un importante punto di partenza.

Questione di nome

La costruzione identitaria comincia da subito, dalle scelte che i genitori fanno all’anagrafe.

Noi abbiamo deciso di assegnare alle nostre figlie due nomi, ognuno dei quali potesse essere pronunciato senza problemi in entrambi i Paesi, Italia e Mozambico.

La primogenita si chiama Isabella Zua: Isabella era il nome di mia cognata, mentre Zua – in xisena, la lingua madre di mio marito – significa “sole”.

Mio marito nel 2019 è dovuto tornare in Mozambico per rinnovare il passaporto e, sotto mia richiesta, in quanto super affascinata dalle lingue bantu, rientra in Italia con un meraviglioso vocabolario portoghese-xisena. Comincio a sfogliarlo, alla ricerca delle poche parole che conosco. Cerco di pronunciare goffamente quelle che mi piacciono come significato. Poi, lo sgomento.

Zua, così come scritto, non esiste. Alla voce “sol”, in portoghese, corrisponde una parola che mi sembra impossibile da pronunciare: DZWUA. Ohi, non scherziamo.

Io, insegnante, cultrice della grammatica, scopro – a distanza di un anno e mezzo – di avere una figlia col nome sgrammaticato.

Mio marito mi liquida dicendo che un nome del genere, in Italia, sarebbero tutti impazziti a scriverlo e che Zua, da grande, ci avrebbe odiati. Questa è una storia che spesso si ripete per molti che, con un nome di origine straniera, si vedono costretti a semplificarlo o – addirittura – a trovare un corrispettivo in italiano.

Da questo episodio ho imparato che ogni nome ha una sua storia, una sua specifica importanza che nessuno – dall’esterno – può permettersi di sminuire.

(Nel frattempo nostra figlia ha un nome grammaticamente scorretto).

Il bilinguismo come ponte fra due mondi

“Ma non si confondono?”, ci ha chiesto qualcuno, sentendo Jo parlare in portoghese con Zua.

Molti ci avevano detto che le nostre figlie avrebbero potuto cominciare a parlare più tardi, che avrebbero creato una loro lingua mista usando parole alla rinfusa.

Sarà un caso, ma Zua ha iniziato a parlare correttamente in italiano molto presto e difficilmente mescola le lingue. Ogni tanto dice bebere al posto di bere, ma direi che possiamo fargliela passare, visto che ha imparato a dire italo-mozambicana.

Due bambine annunciano di essere italomozambicane. Sullo sfondo, papà mozambicano e mamma italiana. Copertina del nostro articolo sulla questione della costruzione identitaria

(Credits: Carola Astuni)

(Vedremo quando comincerà Dafne. Ripeto: ogni bambino ha i suoi tempi e le sue modalità!).

Acquisire una seconda lingua senza accorgersene, da così piccoli, è una grandissima fortuna. Gli studi in merito sono tutti molto propositivi e non ci sono evidenze scientifiche che obiettino ai benefici che il bilinguismo apporti nei bambini. Ma, al di là della questione didattica e cognitiva, il portoghese rappresenta, per le mie figlie, il modo per poter comunicare con la nostra famiglia in Mozambico.

Unico tramite senza il quale non comprenderebbero una cultura intera, fatta anche di storie, di musica e ricette con riso e burro d’arachidi. Una cultura che, per ora, vivono grazie agli affascinanti racconti del loro papà e dei suoi, nostri, amici mozambicani.

Colourblindness, la cecità di fronte ai colori

Le mie figlie non solo vivono in una famiglia con tradizioni diverse, ma anche con genitori che hanno una differente pigmentazione della pelle. Questo non passa certo inosservato.

I bambini, infatti, a meno che non siano daltonici, vedono benissimo i colori. Smettiamola di dire “siamo tutti uguali”. Io stessa incappavo in questo errore, sperando che – appiattendo/nascondendo l’idea del colore della pelle – si sensibilizzassero bambini e adulti su questioni legate al razzismo.

Non solo è inesatto, ma non aiuta le mie figlie a costruire la loro identità.

Disegno di Rosa Parks, attivista per i diritti civili

Ritratto di Rosa Parks (Credits: Carola Astuni)

Durante la mia seconda gravidanza, ho preparato dei quadretti per la camera delle mie bimbe. Sono ritratti di donne che ammiro, donne con una storia importante alle spalle. Donne che hanno fatto la differenza, nonostante le difficoltà che questo genere ha assegnato loro.

Zua mi chiede chi sia quella signora con un cartello in mano e gli occhiali (Rosa Parks):

“Lei era Rosa, amore”

“Ma no, mamma, cosa dici, lei è beige come me”

Il colore della pelle conta eccome. Non possiamo far finta che non esista.

I bambini vedono, comprendono e necessitano di identificarsi in qualcuno che assomigli loro. Il problema delle nostre figlie è che saranno sempre considerate straniere, ovunque si troveranno. Sia in Italia, che in Mozambico: troppo nere per essere italiane, troppo bianche per essere mozambicane.

Quindi: che fare di fronte alla questione della costruzione identitaria?

Quando si diventa genitori nessuno ti consegna un libretto d’istruzioni.

Le nostre figlie rappresentano un mondo nuovo, per noi inesplorato: né io né mio marito saremo davvero in grado di capire come si potranno sentire, soprattutto durante l’adolescenza. Da parte nostra, però, cerchiamo di ascoltare chi ci è passato, leggiamo e approfondiamo: tentiamo di fare il nostro, sensibilizzando chi ci sta intorno. Chi mi legge, chi ascolta le canzoni di mio marito.

Cerchiamo di mantenere equilibrio, rafforzando gli aspetti culturali che vengono – inevitabilmente – messi da parte nel quotidiano. Frequentiamo una comunità in cui si possano rispecchiare, più variegata possibile, che non le faccia sentire sole, diverse. Mostriamo libri e raccontiamo di persone in cui si possano identificare, con una storia familiare simile alla loro – questo però lo approfondiremo in un prossimo articolo.

Non esiste una ricetta universale per aiutare i bambini a capire il loro posto nel mondo. Ogni caso è a sé, ogni famiglia è diversa e – si sa – ogni genitore come fa, sbaglia. Sempre.

Sbaglio per sbaglio, almeno tentiamo di trovare la strada più adatta alla nostra famiglia. E incrociamo le dita.

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