Il genocidio del Rwanda – La narrazione sbagliata


Il genocidio del Rwanda, per rapidità e ferocia, è la peggiore strage organizzata del Novecento. Ma della sua storia, del suo sviluppo, della scia di morte che ha lasciato, non si parla quasi mai. Eppure non si tratta di fatti accaduti un secolo fa: sono passati neanche trent’anni, e le modalità con cui l’odio tra due anime di uno stesso Paese è stato fomentato consapevolmente sono più che mai attuali. E possono venire riutilizzate anche oggi, in qualsiasi parte del mondo.

Avevo avuto modo di introdurre l’argomento del genocidio del Rwanda già nell’intervista a Marilena Delli Umuhoza, scrittrice italo-rwandese. Oggi, però, cercherò di trattarlo in maniera più approfondita, sebbene sia molto complesso e non basteranno queste righe per darne un quadro completo.

Mi scuso in anticipo se non sarò sufficientemente esaustiva: in fondo all’articolo ho aggiunto una lista di testi, film e documentari per dar la possibilità, a chi lo desidera, di approfondire ulteriormente.

E dunque, quando ha avuto inizio il genocidio rwandese? Come si è sviluppato? E, soprattutto, perché non si parla abbastanza della sua storia?

Le stragi di 27 anni fa

Domani, 6 aprile, iniziano le celebrazioni per la Memoria del genocidio del Rwanda. Kigali, l’animata capitale del piccolo stato centrafricano, si ferma. Tutto si blocca. Ogni anno i suoi abitanti sono chiamati ad assistere alle rappresentazioni negli stadi, partecipando a manifestazioni che riaprono ferite mai rimarginate.

Yolande Mukagasana, che ha testimoniato la sua esperienza di sopravvissuta in due toccanti libri, scrive:

“Anche se passa le sue giornate altrove, Dio torna a riposarsi in Rwanda” Questo proverbio, nel mio Paese, è più antico dell’invasione dei missionari. Sì, Imana veniva tutte le sere a dormire in Rwanda, si diceva (…). Imana viene ancora a dormire nel mio Paese? E c’era la sera del 6 aprile 1994? (…) Quel giorno, forse, la notte è scesa così velocemente che Dio non ha fatto in tempo a ritornare in Rwanda.

tratto da La morte non mi ha voluta

Paesaggio rwandese al tramonto

Paesaggio rwandese al tramonto, strada fra Butare e Muhanga (Credits: Carola Astuni)

Il genocidio, che venne perpetrato in novanta giorni e fece quasi un milione di vittime (su una popolazione di – allora – sette milioni), viene catalogato come una banale guerriglia etnica.

Questo è ciò che viene comunemente narrato. Ma c’è una storia molto più scomoda. Taciuta per anni.

La genesi del genocidio del Rwanda

Il Rwanda diventa protettorato della corona belga agli inizi del Novecento. Si tratta di un piccolo Paese uniformemente gestito, dove tutta la popolazione condivide un’unica lingua (il kinyarwanda), un’unica religione (il culto monoteista di Imana) e le stesse tradizioni. Si tratta di una rarità per il contesto dell’Africa centrale: basti pensare all’allora Zaire, che dal 1997 ha preso il nome di Repubblica Democratica del Congo, dove le lingue parlate sono più di duecento.

Esemplare di inyambo

Esemplare di inyambo, mucca sacra in Rwanda (Credits: Carola Astuni)

Non ci sono conflitti interni. Esistono però suddivisioni sociali che vengono, erroneamente, considerate etnie: i tutsi sono coloro che possiedono almeno dieci mucche, gli hutu meno di dieci, mentre i twa non sono proprietari di alcun capo di bestiame. Sono categorie sociali che possono essere soggette a cambiamento: un hutu può diventare tutsi, e così viceversa.

Questo sistema flessibile viene però congelato nel momento in cui i belgi assegnano ai rwandesi – nel 1933 – una carta d’identità etnica. Sul documento è impressa la propria appartenenza a uno dei gruppi, rendendo impossibile la mobilità fino ad allora esistita.

Non solo: i belgi sono convinti che i tutsi siano un’etnia proveniente dall’Etiopia, più fisicamente simili agli europei e – automaticamente – più inclini al comando.

Divide et impera

I belgi, appoggiati dai missionari, cominciano un’insensata propaganda razzista, utilizzando un sistema di misurazione del cranio, del naso e degli occhi per stabilire l’appartenenza etnica dei singoli.

Sei alto? Sei tutsi. Naso largo? Sei hutu.

I tutsi governano il Rwanda sotto l’egida dei colonialisti. Per mantenere i privilegi, però, sottomettono duramente gli hutu che, nel 1959 – con la spinta dei moti indipendentisti che coinvolgono l’intero continente – si ribellano. Una ribellione che sfocia in sanguinosi attacchi ai tutsi che scappano nei Paesi circostanti, soprattutto in Uganda e Burundi. In Uganda si crea, nei campi profughi, quello che diventerà il partito oggi al potere: si tratta del Fpr, Fronte patriottico rwandese, che rivendica il diritto a vivere in patria e si prepara a rientrare, a costo di usare la forza.

Dal 1959 le ritorsioni contro i tutsi sono numerosissime. Nel 1963 il Paese diventa indipendente e il governo è affidato agli hutu, i quali però non hanno avuto accesso all’istruzione per via delle discriminazioni subite per decenni.

Il Rwanda è in preda al caos, alla povertà e al risentimento nei confronti dei tutsi.

Chiamata alle armi

Tutti i problemi sociali che il governo hutu deve affrontare sono risolti con l’individuazione di un capro espiatorio: il tutsi, nemico comune che bisogna annientare per evitare che ritorni al potere, vendicandosi dell’esilio di molti.

I tutsi rimasti in Rwanda non possono ottenere incarichi pubblici, vietati i matrimoni misti. Non hanno nemmeno accesso all’istruzione, se non tramite un iniquo sistema di quote etniche.

La radio incita alla discriminazione: all’inizio subdolamente, tramite barzellette, commenti e musica. Canzoni con terribili slogan arrivano fino alle case più remote.

Man mano che il tempo passa, però, quella sottile linea d’odio diventa evidente propaganda, che ha come obiettivo quello di uccidere tutti i tutsi.

L’abbattimento dell’aereo del presidente Habyarimana

Il 6 aprile 1994 viene abbattuto l’aereo del presidente Juvénal Habyarimana, di ritorno dalla Tanzania. Ad Arusha, infatti, sono in corso i trattati di pace coi ribelli del Fpr. Questa data viene identificata come l’inizio effettivo del genocidio del Rwanda.

Quella sera, quel boato risuona in ogni angolo di Kigali. Come una furia, le milizie estremiste eliminano tutti coloro considerati politicamente schierati verso la pace, compresi ministri hutu come Agathe Uwilingiyimana, a favore di un sistema scolastico inclusivo per hutu e tutsi, senza distinzioni.

L’Onu abbandona il Rwanda. Restano pochissimi soldati, disarmati, a tentare di mantenere la pace.

La situazione precipita in poco tempo: ogni buon hutu è chiamato a fare la propria parte. Sterminare ogni tutsi presente sul territorio. Chi non lo farà sarà considerato un traditore e, per questo, subirà la stessa sorte degli inyenzi (lett. scarafaggi), termine con cui vengono identificati i tutsi.

La narrazione sbagliata del genocidio rwandese

Il genocidio del Rwanda è definito dai giornali internazionali come uno scontro fra etnie, una guerra lontana dalla nostra comprensione. Il Consiglio delle Nazioni Unite parla di “atti di genocidio”: se utilizzassero il solo termine genocidio, infatti, sarebbero obbligati a intervenire, secondo la convenzione del 1948 che stabilisce che:

(…) è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire.

Morti, sfollati, feriti, una società in passato unita e pacifica andata completamente distrutta. E, a far da cornice a questa disumana vicenda, troviamo i pessimi atteggiamenti della comunità internazionale.

I soldati europei che vanno a recuperare i connazionali rimasti bloccati in Rwanda, per esempio. Salvano i turisti e i cooperanti, ma abbandonano il Paese senza preoccuparsi dei massacri di donne, uomini e bambini.

Tre mesi di guerra, e poi?

Due bambini rwandesi, seduti su un pagliericcio

(Credits: Carola Astuni)

Novanta giorni di tremendi massacri riducono il Rwanda a un Paese fantasma. Sono circa 500mila le donne vittime di stupri, 75mila i bambini rimasti orfani. In tre mesi, la situazione precipita: l’avanzata del Fpr dal fronte ugandese rende il governo sempre più instabile.

Quando il Fpr riesce ad occupare Kigali, è in atto la ritirata degli hutu: è uno dei più grandi e imponenti esodi di profughi dell’ultimo secolo, sono circa due milioni gli sfollati nei Paesi limitrofi. Ma, insieme ai civili, si trovano genocidari, assassini e – soprattutto – coloro che hanno attivamente partecipato alla pianificazione, i cosiddetti architetti del genocidio.

Molti hutu, tuttavia, non riescono a fuggire. Le carceri cominciano a riempirsi, la giustizia inizia il suo lungo e tortuoso percorso: la Corte Penale Internazionale, con sede in Tanzania, non riesce a processare tutti coloro che si sono macchiati di omicidio durante quei  giorni. Ci vorrebbero cento anni, sostiene Human Rights Watch.

Si decide, allora, di dar luogo a una antica usanza rwandese: i gacaca, i tribunali tradizionali, basati sul concetto di perdono. Se la famiglia offesa decide di concedere il perdono all’imputato, costui è considerato libero dalla prigionia.

Ed è proprio il perdono il concetto su cui si basa la ricostruzione del Paese, ancora oggi.

Genocidio del Rwanda: un piano preciso e studiato

Il genocidio del Rwanda, come tutti i genocidi della storia, non è accaduto per sbaglio. Un evento come un genocidio non avviene perché un intero Paese è colto da un improvviso raptus collettivo.

Ma questo è quello che i media hanno voluto raccontare, ed è dovuto a due principali motivazioni. La prima, quella più ovvia, è che l’Africa, gli africani – e le guerre a loro connesse – sono da sempre rappresentate con lo stereotipo e la retorica colonialista del hic sunt leones: secondo gli antichi romani, sulle mappe veniva segnato ciò che non era ancora conosciuto in terra d’Africa con un generico “Qui ci sono leoni”. Le nostre conoscenze di storia e politica africana restano pressoché invariate da allora.

La seconda, quella politica, è che molte forze internazionali avevano interessi a insabbiare le proprie colpe nel mancato intervento. In particolar modo, la Francia.

Immagine che ritrae la gamba di un ragazzo insieme a due stampelle. È la foto che abbiamo scelto come simbolo per raccontare il genocidio del Rwanda

(Credits: Carola Astuni)

Tutti i genocidi vengono minuziosamente pianificati, nel tempo e nella mente delle persone. Secondo Raul Hilberg, ne La distruzione degli ebrei d’Europa, esistono quattro fasi di pianificazione:

  1. umiliazione e perdita dei diritti (leggi razziali, nel caso rwandese i comandamenti Hutu)
  2. individuazione e marcatura (carta d’identità etnica)
  3. deportazione in campi di concentramento
  4. eliminazione totale (eccidi di massa)

Il terzo punto, nello specifico caso rwandese, non ha tempo di essere compiuto, dal momento che – insieme alle milizie estremiste – tutti i civili hutu sono chiamati a epurare il Paese dalla “feccia tutsi”.

Libri e film per approfondire il tema del genocidio del Rwanda

Negli anni è stato scritto moltissimo sul genocidio del Rwanda.  Sono stati girati film, documentari. Su Youtube spicca gli Gli Spiriti del Ruanda, un resoconto dettagliato delle vicende del 1994, con innumerevoli interviste a politici, cooperanti, genocidari e sopravvissuti.

Consigli di lettura, seppur molto forti:

  1. Rwanda: istruzioni per un genocidio, di Daniele Scaglione;
  2. Rwanda, la cattiva memoria, Daniele Scaglione insieme a Françoise Kankindi;
  3. I shake hands with Devil, la storia raccontata dal generale Romeo Dallaire, responsabile delle azioni di peacekeeping in territorio rwandese nel 1994;
  4. Purificare e distruggere, usi politici dei genocidi, un saggio che mette a confronto il genocidio del Rwanda, della ex Jugoslavia e quello degli ebrei;
  5.  A colpi di machete, interviste ai genocidari di Jean Hatzfeld;
  6. La morte non mi ha voluta e Un giorno vivrò anche io, di Yolande Mukagasana
  7. Leave none tell the story, di Alison des Forges

Film sul tema:

  1. Sometimes in April;
  2. Shooting dogs;
  3. Hotel Rwanda, da vedere sapendo che il contesto è adeguato, ma la storia del protagonista molto controversa.

La poesia del memoriale di Murambi, tradotta

Concludo questo doloroso resoconto con una poesia liberamente tradotta in italiano, che ho reperito al Memoriale di Murambi nel 2013:

Dormi figlio mio e sogna i giorni che verranno
quando il dolore verrà vinto da un dolce abbraccio d’amore.

Perché queste terre gridano, si sono macchiate col nostro sangue e le nostre lacrime,
tutti gli anni pieni di speranza fioriti dentro il dolore
fanno più male di tutte le parole che possono esser dette,
la mia dignità mi è stata strappata via,
prendendosi tutto e lasciandomi piangere.

Un giorno mi sveglierò per vedere un cambiamento in me
quando la Verità avrà raccontato la sua storia, e la sua voce verrà ascoltata,
queste piogge mi laveranno, anche se le cicatrici ci saranno ancora,
ma il Perdono andrà avanti, dandomi una speranza.

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