Una storia dimenticata fra i deportati da Genova – La memoria della Resistenza


La memoria non è il ricordo: il ricordo si esaurisce con la fine della persona che ricorda il suo vissuto. La memoria è come un filo che lega il passato con il presente, è proiettata nel futuro e lo condiziona. Soltanto se faremo memoria del passato potremo evitare che il passato che vi ho raccontato possa tornare.

(Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz)

Il 27 gennaio ricorre il giorno in cui i soldati russi, nel 1945, giunti ad Auschwitz, scoprirono gli orrori che si celavano dietro quei cancelli. Una data, quella della Giornata della Memoria, che viene associata alle vittime dei campi di sterminio, ai sopravvissuti, a chi ha avuto il coraggio di parlarne, diventando testimone vivente di un delirio collettivo che sconvolse un intero continente.

Di storie ce ne sono tante. Una di queste riguarda uno dei deportati da Genova: un uomo che non fece più ritorno dal campo di concentramento di Flossenbürg.

L’indifferenza e i differenti

Arriverà il giorno in cui dovremo raccontare alle nostre figlie questa storia.

Liliana Segre, senatrice della Repubblica sopravvissuta agli orrori di Auschwitz, ha voluto che nel Memoriale di Milano fosse impressa a caratteri cubitali la parola “indifferenza”. Secondo Segre, infatti, la violenza dei pochi è meno pericolosa della noncuranza, dell’indifferenza, appunto, dei molti. Un sentimento e un modus operandi che lasciò tante, troppe persone in balìa dell’ingiustizia.

Figlie mie, è vero che l’essere umano è generalmente una pecora. Ma non disperate, esiste sempre una speranza. Infatti, nonostante la paura, furono molte le persone che si distinsero per il coraggio di opporsi e di andare controcorrente.

Facendo ricerche, mi sono imbattuta per caso in uno studio svolto dalla sezione dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati) di Pavia, che ha raccolto una serie di documenti e testimonianze sul Trasporto 81, un convoglio destinato esclusivamente a prigionieri politici.

E, come detto, tra queste storie ne ho scelta una in particolare. Quella del maggiore Filiberto Cardenti, uno tra i deportati dalla mia Genova.

Una vita da ricordare

Da insegnante, sono convinta che per far appassionare i bambini alla storia sia necessario raccontare le vite di personaggi interessanti, affascinanti, fuori dagli schemi.

Il Maggiore Cardenti durante una missione nell'allora Tripolitania. La sua è una delle storie dei deportati da Genova durante la Seconda guerra mondiale

Il maggiore Cardenti nell’allora Tripolitania (Credits: archivio famiglia Cardenti)

Figlie mie, oggi vi racconterò di uno di questi deportati del Trasporto 81. Un uomo che fino ad oggi non ha avuto voce, ma che partecipò attivamente alla Liberazione del nostro Paese. In silenzio, senza che nessuno si ricordasse pubblicamente di lui. Ma una recente ricerca approfondita mi ha dato la possibilità di farlo, oggi.

Questa è la storia di un uomo nato in una famiglia piuttosto avventurosa. Suo padre, infatti – scappato a 16 anni dall’isola d’Elba con una barca a remi – prende parte a una delle prime spedizioni per il Polo Nord, insieme al Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia, nel 1899.

Al rientro in patria, nel 1903, nasce Filiberto, nome che evoca una chiara ammirazione monarchica. Così, con un padre in Marina, Filiberto decide di iscriversi all’accademia militare di Modena, dando inizio al suo percorso da ufficiale nell’esercito.

Sono gli anni in cui il fascismo comincia la sua ascesa: Filiberto si sposa con Teresa, vivono in una grande villa nell’astigiano, anche se lui è quasi sempre in missione. Albania, Tripolitania (l’attuale Libia): medaglie al valore assegnate, una famiglia nel frattempo che cresce. Nel 1936 nasce la sua prima figlia e lui, a soli 33 anni, è già Capitano con un attendente al seguito.

Storia di un paracadute

La moglie sa poco dei suoi spostamenti. Cresce tre figlie, gestisce un’imponente proprietà. Un giorno, Filiberto porta con sé due grandi paracadute aperti, non più utilizzabili per l’esercito: seta purissima. Ottima per delle belle camicette per le sue bambine.

“Ma dove li hai recuperati?”

“Teresa, mi paracaduto oltre le linee nemiche. Porto informazioni agli inglesi”

Il Maggiore Filiberto Cardenti durante un'operazione su un aereo militare, in attesa di paracadutarsi

Il maggiore Filiberto Cardenti, uno dei deportati da Genova, durante un’operazione su un aereo militare, in attesa di paracadutarsi (Credits: archivio famiglia Cardenti)

Con questa semplice spiegazione, la famiglia viene a conoscenza di un delicato e pericoloso aspetto della carriera di Filiberto. Collabora con i servizi segreti inglesi. Un ufficiale segretamente parte della Resistenza: gestisce informazioni di cui solo un’alta carica dell’esercito può essere a conoscenza.

Una scelta dura e rischiosa che pagherà a caro prezzo. Come tanti insieme a lui.

La cattura

Sono anni duri, pericolosi per chi tenta la strada del coraggio. Filiberto, nel frattempo, diventa Maggiore.

In una memoria scritta da Teresa, sua moglie, si legge:

Tradito il 7 luglio 1944 dai partigiani coi quali collaborava per la causa italiana. Fu consegnato alle S.S. tedesche, martirizzato alla Casa dello Studente di Genova e, ancora coperto di ferite e di piaghe, fu tradotto al carcere di Marassi (…)

Ad aspettarlo ai binari della stazione Principe di Genova, i tedeschi. Il maggiore sa già cosa l’attende: quando parte da Asti sostiene che, se non andasse, prenderebbero un altro compagno. Non è facile essere coraggiosi e, allo stesso tempo, così coerenti.

Il 7 luglio del ’44 segna l’inizio del suo calvario. Imprigionato, torturato, condotto da un carcere all’altro nella speranza di estorcergli delle informazioni. E lui, zitto. Nonostante il timore delle eventuali ripercussioni sui suoi cari.

La famiglia viene segretamente avvertita e, su suggerimento del fidato attendente, fatta nascondere in una cantina della villa vicina per un lungo periodo.

Deportati da Genova e da tutta Italia

Durante la prigionia a Bolzano incontra un certo Guido Strappafelci, del quale diventerà amico. Strappafelci scriverà in seguito una lunga lettera, indirizzata alla moglie e alle figlie del maggiore. Una testimonianza diretta degli orrori vissuti da lui, da Filiberto e da tutti gli altri detenuti. Ma anche di una ricerca di dialogo perduto, di apparente normalità.

Filiberto – Siete di Roma?
Guido – Sì, si sente?
(F) – Un poco. Sono stato più volte a Roma… Roma, bella città!
(G) – Grazie. E voi, da dove venite?
(F) – Mi hanno restrutturato. Figuratevi che la mia famiglia ignora dove mi hanno portato. E voi?
(G) – Coartato d’ordine del ministro Buffarini.
(F) – Partigiano?
(G) – No… Fascista! – mi fissò incredulo.
(F) – …fascista?!
(G) – L’avete detto! Strano, vero? – raccontai la mia storia, storia viva, palpitante in cui le corde della mia anima vibrarono d’amarezza e di rimpianti.
(F) – Quanta malvagità negli uomini – rispose, dopo avermi stretto con comprensione la mano.

Nel corso della lettera emergono dei particolari incredibili. Filiberto e Guido, infatti, programmano la fuga, a seguito della soffiata di un certo Brucher, che avrebbe potuto aiutarli a evadere. Il giorno è stabilito: 7 settembre 1944. Tutto è pronto, la forza sembra non mancare in vista dell’auspicata libertà.

Un viaggio di sola andata

La lettera prosegue e Guido scrive:

Mancano due giorni alla data fissata per la nostra fuga. Ogni nostro gesto, ogni nostra parola è tesa al miraggio della libertà. Attendiamo come al solito nella nostra spianata del “lager” per essere avviati al lavoro, quando un urlo di sirena ferisce le nostre orecchie. Il segnale per l’adunata generale del campo. (…) Il Comandante del “lager” procede con l’appello. Trattasi di un nuovo convoglio per l’interno, non c’è dubbio. (…) Volgo il capo e incrocio lo sguardo di Filiberto.
– Cardenti Filiberto!
La fine di tutti i nostri sogni. L’ostacolo asperrimo che si frappone fra noi e la libertà.
– Senti – mi disse – ormai per me è finita… Mathausen, Dachau, capisci? Ascoltami. Fra due giorni sarai libero, promettimi una cosa. Tu sai l’amore che nutro per i miei cari, mia madre, mia moglie, le mie bambine. Sono tutta la mia vita. Ti prego, questo è l’indirizzo: parla a loro molto a lungo di me, dei miei affetti, del mio pensiero costante. Fido in te, mio unico amico.

Parole struggenti che accompagnano il maggiore al suo destino: campo di concentramento di Flossenbürg, poi Lengefeld dove, il 9 aprile del 1945, a pochi giorni dall’arrivo degli Alleati, si spegne. Secondo la testimonianza di un certo Carlo Fontanella, il maggiore muore per problemi di cuore.

Del Trasporto 81, la quasi totalità dei deportati non riesce a sopravvivere. La Resistenza ebbe una composizione decisamente eterogenea, molto più variegata di quanto non si pensi: questo convoglio ne è la prova. Religiosi, magistrati (fra cui Dino Col, pretore di Genova), membri del Cln, anarchici e ufficiali. Tutti insieme, avvolti in un unico triste destino.

In memoria del maggiore Filiberto

In un’altra lettera recapitata alla famiglia, si legge questo ricordo di un amico:

(…) Infine il mio grande amico Maggiore Osservatore FIliberto Cardenti, anima di sognatore e di purissimo italiano, un eroe di tre guerre. Povero Cardenti, come ti ricordo con affetto, come ci eravamo compresi in questo grande e forse irraggiungibile sogno di rivedere la nostra patria libera e indipendente da ogni legame straniero. (…) mi dicesti “Prima di ogni cosa siamo italiani”.

Ritratto del Maggiore Filiberto Cardenti, uno dei deportati da Genova, in tenuta ufficiale.

In memoria del maggiore Filiberto Cardenti, fra i deportati da Genova (Credits: archivio famiglia Cardenti)

Figlie mie, siate onorate di aver ascoltato questa storia. Non stancatevi di cercare, di domandare, di scoprire cosa si cela nel nostro passato. Ma soprattutto, siate fiere di sapere che quest’uomo, questo coraggioso papà, marito, ufficiale dell’esercito, era il vostro trisnonno.

Ringraziamenti:

Vite spezzate, famiglie distrutte, in nome del valore più alto di tutti: la libertà. Questo articolo è dedicato alla memoria di coloro che hanno perso la vita nella speranza di liberarci dall’oppressione nazista. Un grazie speciale alla mia nonna, che ha avuto il coraggio di ripercorrere insieme a me tappe del suo doloroso passato, rileggendo le lettere che parlano del suo papà. Questa ricerca mi ha avvicinata ancora di più alla grande persona che è stato il mio bisnonno. Grazie anche all’Aned e a tutto il lavoro svolto per ricordare e tenere viva la memoria dei deportati da Genova e dall’Italia intera.

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