Sono razzista (ma sto cercando di smettere)


Per una serie di circostanze più o meno casuali, due anni fa mi sono ritrovata sulla pagina Instagram di Esperance Hakuzwimana Ripanti, speaker radiofonica e attivista, nata in Rwanda e cresciuta a Brescia. Incuriosita dalle sue riflessioni molto pungenti su questioni di attualità, ho cominciato ad ascoltare attentamente i suoi interventi in tema di letteratura e antirazzismo.

Fino ad allora le mie riflessioni, forse dovute a cieca ignoranza, pressapochismo o semplice superficialità – chi può dirlo – si erano sempre fermate al fatto che essere razzisti significasse protestare contro il salvataggio dei migranti, insultare qualcuno per il colore della propria pelle o negare un servizio a qualcuno in quanto straniero.

Poi ho capito. Ma non è stato semplice accettarlo: sono nata razzista. Ora vi racconto in che modo e come sto cercando di cambiare me stessa.

Il casus belli

Copertina del libro "E poi basta: manifesto di una donna nera italiana". Ritratta l'autrice, Esperance Hakuzwimana Ripanti.

Copertina di “E poi basta” (Credits: Peoplepub.it)

Quando è uscito il libro “E poi basta – Manifesto di una donna nera italiana” scritto proprio da Esperance Hakuzwimana Ripanti, ho deciso subito di acquistarlo. Questa giovane autrice ha il dono di plasmare immagini con le parole e di farmi entrare in un mondo che mi è estraneo.

Cosa significa crescere in Italia da donna nera, in una famiglia adottiva? Cosa significa essere vittima di pregiudizi e stereotipi e sentirsi impotenti, spesso, di fronte alle domande invasive di sconosciuti?

L’autrice ha deciso di raccontarsi per spiegare, una volta per tutte, cosa viene considerato razzista, cosa non funziona in questo nostro amato Paese e perchè l’antirazzismo sia spesso minimizzato nelle azioni e nei pensieri. Leggendo proprio le pagine dedicate all’ipocrisia dei benpensanti antirazzisti, ho cominciato a farmi un doloroso esame di coscienza.

Ho letto, riletto. Mi sono arrabbiata, ho riflettuto, mi sono nuovamente fissata su quelle parole che – per me – sono state una pugnalata. Mi sono sempre dichiarata apertamente antirazzista, contraria a ogni forma di discriminazione: ma siamo sicuri che basti essere pro-migranti, avere un partner straniero o aver adottato un bambino africano per dichiararsi, senza se e senza ma, automaticamente antirazzisti?

Una definizione composita di razzismo

La Safehouse Progressive Alliance for Nonviolence, un’organizzazione statunitense che si occupa di diritti umani dal 1979, ha messo a punto un diagramma che vuole esplicitare quanto il razzismo sia, in realtà, molto più complesso di quanto non ci si immagini.

La piramide della supremazia bianca. Un diagramma che mostra il razzismo socialmente inaccettabile (violenza, genocidio) e quello socialmente accettato (negare il privilegio bianco).

Piramide della supremazia bianca (Credits: “What if…White People Took Responsibility for Our Role in this Moment?”, su Medium.com)

Come un iceberg, questa piramide ha una punta che affiora in superficie: è il razzismo che normalmente viene considerato socialmente inaccettabile. Genocidio, violenza fisica e verbale, gruppi estremisti che fanno dello stigma razziale il proprio punto di forza. Sotto troviamo un mondo sommerso che la nostra società ha deliberatamente continuato a nascondere e a far passare per la normalità.

Motivo per cui, se una persona discriminata per le proprie origini tende a esplicitare il proprio punto di vista su una questione che non ci compete, tendiamo direttamente a minimizzare. Ci sentiamo, per chissà quale ragione, chiamati in causa e dobbiamo trovare il modo di scusare dei comportamenti inadeguati di terzi.

Qui entrano in gioco tutta una serie di pensieri/azioni che, spesso, vengono vissuti dalla società come prodotto di un politically correct ostentato e fastidioso: negare il privilegio bianco, la sindrome del salvatore bianco, ridere a battute razziste.

Non è semplice accettare che questi sentimenti siano parte di noi, soprattutto per chi è convinto di essere davvero un antirazzista.

I media e il loro ruolo nella narrazione razzista

Viviamo così tanto immersi nel razzismo, sistemico e non, da non accorgerci quasi che ci siamo dentro fino al collo.

Parliamo di propaganda di un certo tipo di politica, al punto che si tende a tralasciare il linguaggio utilizzato in situazioni opposte (che finisce comunque per essere razzista).

Qualcuno ricorderà la vicenda dell’autobus salvato dai due ragazzini di origine egiziana, accaduta il 20 marzo 2019 vicino a San Donato Milanese. La stampa ha voluto più volte sottolineare come i due eroi meritassero la cittadinanza italiana. Cittadinanza che è stata loro conferita, in seguito, per speciali meriti: standing ovation popolare! Ma nessuno si è chiesto come mai quei due ragazzini non lo fossero già, cittadini italiani? Nonostante fossero nati e cresciuti qui e frequentassero le nostre scuole?

Uno degli articoli che riporta il fatto di cronaca sostiene che (ora che possiedono la cittadinanza) l’Italia sia un Paese “che adesso è anche il loro. Perché, prima non lo era? Siamo davvero sicuri che un documento faccia la differenza per quanto riguarda il senso di appartenenza?

Questo tipo di narrazione un po’ sensazionalista, un po’ volutamente drammatizzata, vuole puntare l’enfasi su storie di riscatto di immigrati, di stranieri, che devono per forza dimostrare di essere all’altezza del luogo in cui stanno risiedendo, con casi di coraggio straordinario. Storie che, forse, vogliono controbilanciare le urla di chi grida ai richiedenti asilo come il male principale da combattere.

O forse tendono solo a rimarcare che, nel mucchio dei poco di buono, qualche caso straordinario esiste, dai. Tutto ciò contribuisce – paradossalmente – a mantenere intatto lo stereotipo dell’immigrato visto come un nullafacente/criminale/poco desideroso di integrarsi.

“Eh ma allora non si può più dire o fare niente!”

Con mio marito facevamo una riflessione proprio su questo. Lui stesso, da africano, qualche volta ha fatto la battuta “Tanto al buio non mi vedi”: sicuramente ha cominciato a farla una volta arrivato in Italia, come per farsi prendere per chi ha il senso dell’autoironia. Io, di conseguenza, l’ho spesso ripetuta ingenuamente.

Ora che abbiamo una figlia, però, questo genere di battute – che a un bianco fanno goffamente ridere – non abbiamo davvero più intenzione di ripeterle. Non vogliamo che nostra figlia pensi che prendere in giro il colore della sua pelle sia una cosa normale. Non lo è, proprio per niente. Molti penseranno che sia una questione di politically correct: che continuino pure a pensarlo…

Tutti questi atteggiamenti, che a un bianco possono sembrare esagerazioni, sono piccoli mattoncini che portano alla creazione di muri, di sofferenza. Come accorgersi, allora, che stiamo sbagliando? Come rendersi conto delle microaggressioni che ogni giorno mettiamo in atto, senza considerarci minimamente razzisti?

Per esempio, io non sapevo cosa fosse la blackface. Non ne avevo la benché minima idea.

Illustrazione che ritrae un giovane nero col pugno alzato e il simbolo della lotta al razzismo tatuato sulla testa.

(Credits: Carola Astuni)

Un caucasico che si dipinge la faccia di scuro per interpretare un qualsiasi personaggio nero sta mettendo in atto una pratica duramente condannata in alcuni Paesi del mondo: è una tecnica teatrale che era nata, a fine Ottocento, per rappresentare i neri a teatro o al cinema, con chiaro intento denigratorio. In Italia, non solo non si parla di tutto ciò, ma si pensa che sia una goliardata fare battute sul Ministro degli Esteri che è tornato particolarmente abbronzato dalle vacanze. Per ignoranza, probabilmente, mesi fa ci avrei anche riso su. O, a Carnevale, mi sarei potuta travestire da Beyoncé colorandomi il volto senza minimamente pensare di fare una cosa razzista.

E non bastano le buone intenzioni: se vogliamo cambiare un sistema, dobbiamo sapere come modificare radicalmente le nostre azioni.

Race2dinner

Negli Usa è nata un’iniziativa che sta facendo facendo parlare di sé : Regina Jackson, afroamericana, e Saira Rao, americana di origini indiane, sono fondatrici di un’associazione – chiamata Race2dinner – che vuole promuovere la conoscenza del razzismo interiorizzato e inconscio. Come? Aprendo discussioni a tavola con un gruppo di donne bianche, fino a un massimo di sette. Una di queste ospita l’evento in casa propria, alla modica cifra di 2.500 dollari (costo che può essere suddiviso fra le partecipanti o, qualora la padrona di casa volesse, ricade su chi organizza l’accoglienza).

Jackson e Rao hanno stabilito che il target giusto per l’iniziativa fossero le donne bianche, in quanto (traduco letteralmente dall’articolo del Guardian)  “Gli uomini bianchi non cambieranno mai niente. Se ne fossero stati capaci, l’avrebbero già fatto”.

La cena è un momento di confronto: più semplice relazionarsi con i propri interlocutori durante un pasto, piuttosto che in una conferenza, ovviamente. Jackson e Rao, pertanto, diventano personal coach nella lotta al razzismo interiorizzato che è insito nelle società occidentali. Il pubblico non è formato da elettrici di Trump, ovviamente, ma da donne che considerano il razzismo come una piaga da combattere, cominciando da se stesse. Nell’articolo leggiamo di una signora che, ad esempio, sostiene di voler assumere per forza persone nere. Complesso del salvatore bianco?

Iniziativa bizzarra, poco produttiva o sensata? Penso che si tratti di una soluzione piuttosto elitaria e che non riguardi un’opzione su larga scala, come andrebbe fatto, a livello educativo. Sarebbe interessante proporre laboratori del genere nelle scuole, per esempio, con costi nettamente inferiori. E, come ci insegna egregiamente Angela Davis, la lotta al razzismo è anche lotta di classe: quei 2.500 dollari, ecco, stonano un po’.

Detto ciò, tralasciando momentaneamente la questione economica, la mia umile opinione è che momenti di riflessione del genere siano molto importanti. Il tutto dipende sempre dal modo in cui ci si pone nell’atteggiamento di ascolto.

Impariamo ad ascoltare

Gente, facciamoci un bel bagno di umiltà, rimbocchiamoci le maniche e lavoriamo per decostruire e decolonizzare il nostro pensiero, le nostre azioni. Partiamo dal presupposto che viviamo in una società razzializzata e che, di conseguenza, non siamo stati certo cresciuti con frasi “Lavoro tutto il giorno come un caucasico/Se non fai il bravo poi esce l’uomo cobalto dall’armadio”, eccetera: accettiamolo, rendiamocene conto, e facciamo qualcosa per cambiarlo.

Ma, soprattutto, impariamo ad ascoltare chi ne sa davvero qualcosa. Race2dinner è un’organizzazione che ha base negli Usa, dove la storia del razzismo ha radici nella schiavitù e in un sistema che è lontano dal nostro. Questo non significa che l’Italia sia esente da problemi analoghi, tutt’altro. Ma è necessario guardare il nostro giardino e comprendere al meglio il nostro contesto.

Sui social c’è di tutto, è vero. Questo non è necessariamente negativo, anzi: su Instagram, in particolare, ci sono davvero interessanti pagine di attivisti afroitaliani che offrono spunti di riflessione molteplici. Consiglio la rubrica “Non me nero accorta“, confronti fra Oiza Q. Obasuyi, Djarah Kan e la già sopracitata Esperance Hakuzwimana Ripanti; le pagine di AfroItalian Souls, Second Generations, Be woke Italia e Razzismo brutta storia.

Gli argomenti sono molti, sono densi e spesso complessi. Io, mi rendo conto, avevo davvero bisogno di una mano per capire tante cose (e continuo ad averne!).

Sono razzista ma…

Sì, sono nata inconsciamente razzista. Sono nata in una società razzista. Non picchio, non insulto nessuno, non sputo e non discrimino (almeno volontariamente). A scuola racconto ai miei alunni chi erano Martin Luther King, Nelson Mandela e Gandhi. Questo, tuttavia, non significa che io non sia nata con un background di pensiero razzista.

Sono nata razzista, ma sto davvero lavorando su me stessa per cambiare.

 

“The beauty of anti-racism is that you don’t have to pretend to be free of racism to be an anti-racist. Anti-racism is the commitment to fight racism wherever you find it, including in yourself. And it’s the only way forward”

La bellezza dell’antirazzismo sta nel fatto che non devi fingere di essere libero dal razzismo, per essere antirazzista. L’antirazzismo è l’impegno a combattere razzismo ovunque lo trovi, incluso in te stesso. Ed è l’unico modo per andare avanti

(Ijeoma Oluo)

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