Sos to the world – Cause, numeri e pericoli della plastica in mare


Cantiamo in coro: tutti al mare! Tutti al mare! A buttar la plastica in mare!

Ogni anno la quantità di plastica in mare aumenta da cinque a dodici milioni di tonnellate. In questa foto ne vediamo un esempio, seguendo un uomo intento a fare un'immersione

Sos plastica in mare (Credits: Cristian Palmer, Unsplash)

È fuori metrica e non suona bene come quella originale, certo, ma considerate questo: ogni estate circa duecento milioni di turisti visitano le spiagge del mar Mediterraneo e insieme a loro si tuffa in mare anche il 40% di plastica in più del solito.

La solita plastica in mare

Partendo dal presupposto che è del tutto improbabile avere dei numeri certi quando si tratta della quantità di plastica in mare, il report Mediterraneo in trappola del 2018 del Wwf ne riporta alcuni. Ad esempio, nei mari e negli oceani di tutto il mondo sarebbero presenti circa 150 milioni di tonnellate di plastica. Se pensate che un tipico maschio di elefante pesa circa 6 tonnellate… beh, è come se nei mari e negli oceani di tutto il mondo fossero presenti circa 25 milioni di elefanti!

Secondo lo stesso report, entro il 2025 per ogni tremila chili di pesce nelle acque salate del pianeta Terra ce ne saranno mille di plastica. Entro il 2050 ci sarà più plastica in mare che pesci.

Ogni anno la quantità di plastica in mare aumenta dalle 5 alle 12 milioni di tonnellate. Sul podio dei Paesi che ne riversano di più, l’Europa intera si aggiudica la medaglia d’argento – Spagna, Italia e Francia sono i vincitori dei campionati interni. La medaglia d’oro è invece, indiscutibilmente, della Cina.

Il mar Mediterraneo (al cui inquinamento contribuiscono massicciamente anche Turchia ed Egitto) rappresenta circa l’1% delle acque salate di tutto il pianeta ma contiene ben il 7% della microplastica globale – con questo termine si identificano frammenti di plastica più piccoli di 5 millimetri. Queste cifre poco rassicuranti sono però una giustificazione più che valida all’appellativo “trappola di plastica” attributo al nostro mare.

Odore di… plastica in mare

Le specie marine minacciate dalla plastica in mare, a livello globale, sono circa settecento. Uno dei pericoli maggiori è sicuramente l’ingestione della plastica: ad esempio, circa il 90% degli uccelli marini che popolano i cieli e gli scogli del Mediterraneo ha nello stomaco frammenti di plastica. Ma perché?

Il problema della plastica in mare riguarda anche gli uccelli, che rischiano di nutrirsene

Odore di mare (Credits: A_Different_Perspective, Pixabay)

Gli uccelli non si accorgono che quella che stanno per beccare è una busta di plastica e non un bel pesciolino? Proprio no, perché gli uccelli marini scelgono il cibo attraverso l’olfatto e la plastica può avere lo stesso odore delle loro prede: alghe e batteri che la colonizzano emettono un forte odore di zolfo. Odore di cibo per loro: l’ultima cosa da fare è farselo scappare.

L’odore di plastica inganna anche molti pesci. Spesso nella produzione di alcune plastiche viene aggiunto come additivo il solfuro di metile. Si tratta di una molecola contenente zolfo prodotta anche da alghe e plancton, l’insieme di piccoli organismi animali e vegetali alla base della catena alimentare marina. I principali danni da ingestione sono di tipo meccanico: la presenza di plastica riduce la capacità dello stomaco dell’animale e quindi il senso di fame e l’accumulo di grasso, ma può causare anche blocchi intestinali, ulcere e perforazioni. Tutti questi effetti portano quasi sempre alla morte.

Chi bello vuole apparire, un poco deve inquinare

A differenza delle macroplastiche, l’ingestione di microplastiche è per lo più accidentale. Ma riguarda praticamente tutti: dai grandi mammiferi al plancton microscopico, dalle sogliole che si nutrono sui fondali alle cozze provenienti da acquacoltura. Purtroppo riguarda anche noi: Homo sapiens non è una specie marina, ma di specie marine ne cattura e ne mangia parecchie, e con queste anche le microplastiche che hanno accumulato.

Guardando la faccenda da un altro punto di vista un po’ più critico, potremmo vederla così: le microplastiche non stanno facendo altro che tornare dal proprio padrone, l’uomo.

L’origine di questi piccoli frammenti di plastica è molteplice. Alcune si formano in mare, in seguito alla degradazione di plastiche più grandi per effetto del vento, delle onde o della luce solare. Altre si formano accidentalmente sulla terraferma, ad esempio in seguito all’uso e al lavaggio di indumenti fatti da fibre sintetiche. Altre ancora sono prodotte direttamente dall’industria, ad esempio sono usati come additivi nella preparazione di saponi, creme, gel, dentifrici – uno scrub può contenere fino a 360mila microsfere plastiche.

Il report Plastic in cosmetics, redatto dall’Unep (United Nations Environment Programme) nel 2015, propone questo problema: se ogni europeo usa, in media, due grammi di dentifricio al giorno e il 5% di questi due grammi è costituito da microsfere di plastica… di quanto aumenta la plastica in mare ogni giorno a causa del solo dentifricio? La risposta: circa 74mila chili. Oppure circa dodici elefanti!

Un’aggravante dell’inquinamento da microplastiche è che, a differenza di altre, queste plastiche non possono essere riciclate!

Message in a bottle

Gli italiani, è risaputo, sono grandi bevitori. E non solo di vino! Con 178 litri a persona l’anno, l’Italia è il maggiore consumatore di acqua in bottiglia in Europa e tra i primi al mondo. Ogni giorno in Italia vengono utilizzate 32 milioni di bottiglie di plastica.

L'Italia è il maggior consumatore europeo di acqua in bottiglia. Le bottiglie sono fatte da un particolare tipo di plastica, il Pet

Message in a bottle (Credits: Ishan, Unsplash)

Le maggior parte delle bottiglie è fatta con un particolare tipo di plastica: il Pet o, per i chimici tra i lettori, polietilentereftalato. La prima bottiglia in Pet per bevande gassate è stata brevettata nel 1973 dall’ingegnere americano Nathaniel Wyeth; da allora questo materiale non è stato più abbandonato. Data la quantità che nel tempo ne è stata prodotta, per fortuna è riciclabile! Gli amanti della montagna e i più freddolosi dovrebbero esserne grati: coperte e felpe in pile derivano proprio dal riciclo di bottiglie in Pet. Venti bottiglie per fare una coperta e ventisette per fare una felpa. 

In Italia il 41% degli imballaggi, tra cui le bottiglie in Pet, viene avviato a riciclo. Sono tante, però, le bottiglie che finiscono in discarica o purtroppo in mare – dove impiegano circa mille anni per degradarsi. Il Pet, infatti, è un tipo di plastica che non può essere definito biodegradabile. E una bottiglia che impiega circa tre anni per essere degradata in acqua di mare, invece? Lo è? Se sì, possiamo disperderla tranquillamente nell’ambiente?

Uno, nessuno e centomila tipi di plastica

Come la parola stessa dichiara, la “biodegradazione” è un processo di scomposizione di grandi molecole in molecole più piccole, fino ad anidride carbonica e acqua. Questo sminuzzamento avviene a opera di organismi “bio” ovvero viventi; soprattutto microrganismi come funghi e batteri. La biodegradazione può sminuzzare tutto ciò che è fatto a base di carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto; in potenza. In pratica, per definire un materiale biodegradabile, vanno considerate due cose: il tempo che richiede un certo livello di degradazione e in che tipo di condizioni ambientali avviene il processo.

Esistono innumerevoli tipi di plastica: alcuni sono di origine fossile, altre di origine vegetale. La biodegradabilità di una plastica non dipende dall'origine

I mille volti della plastica (Credits: Anna Shvetsa, Pexels)

La plastica fa parte di quei materiali potenzialmente biodegradabili. Purtroppo, per alcuni tipi di plastica,  il processo di biodegradazione è talmente lungo che, nella pratica, è impossibile definirli tali. Questo dipende da come gli atomi di carbonio e idrogeno interagiscono tra loro: possono formare strutture più semplici, e quindi più facili da biodegradare, oppure più complesse, e quindi più difficili da rompere.

Essendo un problema di organizzazione di atomi e molecole, la biodegradabilità della plastica non è legata alla sua origine.

Una bottiglia in bio-Pet, cioè Pet ottenuto da biomassa di canna da zucchero invece che da petrolio, impiegherà comunque mille anni per degradarsi: sono chimicamente identiche! Bioplastica quindi non è sinonimo di biodegradabile. Infatti le molecole non hanno memoria: l’origine non ne determina le caratteristiche.

Per questo, la plastica biodegradabile può derivare tanto dal petrolio quanto da materiali organici, ad esempio quella in Pha (poliidrossialcanoati) sintetizzata a partire dall’amido. È il processo di produzione che rende una plastica biodegradabile: vengono progettate per esserlo! Ad esempio meglio scegliere molecole di base semplici e poco ordinate nello spazio.

Anche questi tipi di plastica però, per degradarsi in tempi ragionevoli, hanno bisogno di particolari condizioni: temperature elevate (55-60°C), un determinato livello di umidità e costante presenza di ossigeno. Condizioni tipiche e specifiche di un impianto di compostaggio industriale; e sicuramente non dell’ambiente marino.

Plastica in mare, quella biodegradabile sì?

Spesso leggere sull’etichetta di un prodotto come biodegradabile può essere interpretato come una giustificazione, una rimozione di responsabilità. Buttare plastica in mare resta comunque uno sbaglio.

Sbaglio commesso, proprio qualche giorno fa, in diretta nazionale da un’inviata de I fatti vostri: dopo aver intervistato un volontario dell’associazione Retake di Mola di Bari, che aveva ritrovato una bottiglia proveniente dal mare contenente dei messaggi per la Madonna, pensa bene di gettarne un’altra. “Vorrei lanciarla in mare e chi la ritrova sarà il primo ospite in trasmissione, tanto questa bottiglia si scioglierà tra poco, è al 100% biodegradabile”. Sì, ma… intanto? Se il volontario non fosse andata subito a recuperarla, come effettivamente ha fatto?

Una tartaruga marina che vede una busta in bioplastica e biodegradabile la mangia, scambiandola per una medusa, come mangia una busta derivata da petrolio. Nonostante nel suo stomaco quella biodegradabile si degradi leggermente prima (il 5% dopo 50 giorni, rispetto allo 0% di quelle non biodegradabili), può comunque causare la morte dell’animale che non si alimenta più.

Le plastiche che si biodegradano in alcuni mesi sulla terraferma in condizioni favorevoli, in ambiente marino lo fanno molto più lentamente. Sulla base delle attuali prove scientifiche è ancora difficile stabilire l’effettivo impatto che questo tipo di plastiche hanno negli oceani. In ogni caso, l’adozione di prodotti in plastica etichettati come biodegradabili non comporta attualmente una diminuzione significativa della quantità di plastica in mare.

Save the beach

Probabilmente, l’unico modo per alleviare il peso – metaforico e non – della plastica che grava sui nostri mari e in generale sulla nostra Terra, è quello di raccoglierla.

Sono numerosi i progetti e le iniziative per la raccolta di plastica in mare e sulla spiaggia

Non c’è più posto per la plastica (Credits: Brian Yurasits, Unsplash)

Il progetto Project Paradise, promosso da una famosa marca di birra messicana, ad esempio, ogni anno unisce le forze con altre migliaia di volontari e organizza operazioni di pulizia lungo le coste di tutto il mondo. Fino a ora sono state completate 519 operazioni di pulizia e ripuliti oltre tre milioni di metri quadri di spiagge.

Cosa fare con tutta la plastica raccolta? Un hotel. Nel 2010, Roma ha ospitato per tre notti il Save the beach hotel, costruito con i rifiuti raccolti dalle spiagge di tutta l’Europa. Questo tipo di riciclo-architettura rischia quasi di diventare una moda! Nel 2014, in occasione di un festival teatrale nella cittadina tedesca di Mannheim, sono stati costruiti ben ventidue hotel “squallidi squallidi” fatti esclusivamente da rifiuti. Tende in plastica e letto coperto da un baldacchino di ombrelli.

Dopotutto viviamo in mezzo alla plastica… perché non dormirci anche dentro?

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