Ascoltare musica in quarantena – 4 album per affrontare l’isolamento


Ero sul divano ad ascoltare musica e a leggere, qualche giorno fa. Era uno di quei tanti momenti indistinguibili che si susseguono in questo periodo. A un certo punto, mi sono imbattuto in qualcosa che mi ha ispirato.

Leggendo non so cosa né per quale motivo, ho trovato un articolo che raccontava di isolamento e scoperte scientifiche rivoluzionarie.

Intendiamoci: la scienza ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel permetterci di ascoltare musica, produrla e diffonderla, ma in questo caso l’associazione mentale che mi ha portato a scrivere questo articolo è stata meno immediata di così.

Ora vi racconto.

Il nesso tra Newton e l’ascoltare musica (dei Pink Floyd)

È il 1666 e a Londra arriva la peste; qui un giovane Isaac Newton decide di rifugiarsi nella casa di campagna di famiglia a Woolsthorpe, in quello che oggi chiameremmo “isolamento volontario”.

Isaac Newton

L’esperimento di Isaac Netwton

E come decide di impiegare questo tempo alienato? Mettendo in atto 44 esperimenti sulla luce, studiando e scrivendo. Ed è così che Newton inventa la copertina di The dark side of the Moon… o meglio, elabora le sue teorie sulla composizione della luce che rivoluzionano il mondo della scienza del suo tempo, arrivando sino a noi.

In questi giorni non si fa altro che sentire di quanto una quarantena possa essere il motore di un cambiamento, di un miglioramento, quando non addirittura una specie di Satori buddista collettivo.

Non so se essere così ottimista, ma di certo le epifanie nella musica contemporanea sono tangibili. Oggi ne racconterò qualcuna, cosciente del fatto che ne esistono ben più di quelle che possono stare in un articolo sull’ascoltare musica in isolamento.

Questi episodi in alcune carriere hanno rappresentato un unicum, in altre un cambio di rotta, in altre ancora la spinta per intraprendere la propria strada.

Vediamole insieme.

Quattro consigli per ascoltare musica in quarantena

Robert Wyatt – Rock bottom (1974)

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(Credits: Vergin Records)

È il 1973, mese di giugno.

Robert Wyatt, già batterista e leader dei Soft machine – nonché successivamente dei Matching mole – cade da una finestra del quarto piano in circostanze mai del tutto chiarite (sicuramente, in uno stato mentale alterato). Risultato: frattura della colonna vertebrale e perdita dell’uso delle gambe.

Durante la convalescenza, Wyatt riprende del materiale risalente all’anno prima e lo rielabora sotto la lente della sua nuova condizione.

Dopo mesi di lavoro solitario partorisce Rock bottom: un disco rivoluzionario, obliquo e incatalogabile. Un viaggio nelle profondità marine, un sogno fluido e magmatico in cui non si ravvede nemmeno una vera sequenza di canzoni, piuttosto un unico processo di catarsi.

L’apertura di Sea song è semplicemente da brividi: una discesa negli abissi tanto delicata quanto angosciante; la voce di Wyatt è una carezza fragile, ma tutto questo è solo il preludio di un viaggio nelle profondità raggelanti che prosegue con Last straw e Little red riding hood hit the road con le loro derive jazz (Bitches brew dei Miles Davis docet) fino a giungere alla coppia Alifib e Alife, che ci catapultano nel pieno del delirio immaginifico dell’autore.

Un’allucinazione febbrile, dove le parole diventano puro suono e si lasciano alle spalle il fardello del significato, il punto più intenso di questo processo di catarsi.

La chiusura è affidata alla folle Little red riding hood hit the road che si conclude con una sardonica risata.

Il disco di Wyatt, oltre che diventare il punto più importante della sua carriera solista, rappresenta quanto di più vicino a un viaggio cosmico, un percorso fatto di dolore e di tonalità irrequiete, con improvvise schiarite e grandi momenti di pace; qualcosa di mistico avvolge questo disco misterioso, e disegna una solitudine lucida nella sua follia, un percorso interiore intenso quanto spiazzante.

 

Nick Drake – Pink Moon (1972)

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(Credit: Island Records)

Nel 1972 esce quello che forse rappresenta il disco della solitudine più noto e amaro della storia recente della musica: Pink Moon, considerato tutt’oggi uno dei pilastri della musica cantautoriale anglofona.

Il giovane Nick Drake, anima sofferta e affetta da depressione, è reduce da due lavori meravigliosi passati totalmente inosservati: Five leaves left e Bryter layter. Gode della fiducia incondizionata della sua etichetta, la Island, ma non è per nulla avvezzo alla promozione e alle interviste, che continua a rifiutarsi di rilasciare.

È amareggiato dai continui fallimenti, ma forte della qualità di nuove composizioni. Così si reca in studio con il solo tecnico di fiducia e incide tutto il disco con la sua chitarra in una sola notte; in un paio d’ore, si dice.

A eccezione di un qualche minimale inserto di pianoforte, il disco è già chiuso qui: undici canzoni, gioielli già compiuti anche in una forma così primordiale.

È un disco di silenzi, di sussurri. La chitarra di Drake è come sempre impeccabile oltreché assolutamente personale, e la sua voce è delicata ed evocativa. Nessuna sofisticazione: la registrazione è quanto di più scarno si possa immaginare, ma nel contempo impeccabile.

È un album fatto di distanze. È l’apice di una solitudine esistenziale che il cantautore si porta dentro e da cui non riuscirà a liberarsi. Alla fine riscuoterà ancora minor successo dei precedenti, e Nick si abbandonerà definitivamente alla depressione. Tornato a vivere nella casa dei genitori, verrà trovato morto nella sua camera dalla madre il 24 novembre del 1974 .

Una parabola umana drammatica che ci ha regalato tre perle indiscusse. Tra queste, Pink Moon resta la più delicata e preziosa. Un album da ascoltare tutto di un fiato.

 

 

Bruce Springsteen – Nebraska (1982)

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(Credits: CBS Records)

Dopo anni di traversie legali, BruceThe bossSpringsteen si ritrova con alle spalle un istant classic.

Sto parlando di The river, emblema della potenza verace e sudoripara del rock, paladino della working class, con gli stadi pieni e osannato dalla critica.

Cosa fare dunque? Quello che hanno saputo fare gli artisti più intelligenti in questi casi: invertire totalmente la rotta.

Springsteen si ritira quindi in solitaria nel New Jersey. A fargli compagnia, una chitarra acustica, l’immancabile armonica e un registratore Tascam a quattro piste.

Da questo isolamento vengono fuori una dozzina di canzoni. Dieci di queste verranno poi inserite nel disco, tra cui la desolata Highway Patrolman, la sognante Nebraska, brani fintamente semplici come Johnny 99 o Used Cars. Tra gli scarti, una certa Born in the Usa

I temi sono quelli cari al Boss, ma con un taglio questa volta amaro e disincantato. Il sogno americano non è più una prospettiva ma una condanna, le strade sono deserte e il vento non è amico.

Il suono è scarno, a tratti quasi amatoriale, quasi nessuna miglioria viene concessa alla casa discografica. L’autore è convinto che il disco debba suonare proprio così; ha tentato con la E-Street Band, ma quei brani proprio non funzionano diversamente.

È il 1982 ed esce l’album Nebraska.

 

Bon Iver – For Emma, forever ago (2007)

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(Credits: Jagjaguwar)

Se esiste un disco che può rappresentare l’isolamento, non solo metaforico, è questo: For Emma, Forever Ago, album d’esordio assieme timido e deflagrante dei Bon Iver di Justin Vernon.

Gli ingredienti di questo indimenticabile lavoro sono: una voce (o meglio un tripudio di voci), una chitarra, una casa di legno nel Wisconsin e soprattutto… l’inverno.

Un inverno che avvolge il giovane Vernon, reduce dall’abbandono della sua band (i DeYarmond Edison) e della sua ragazza. Eventi che lo trasformano in una nuova creatura, il cui nome risuona appunto come un augurio di “buon inverno”.

Ancora una volta, questo capolavoro d’introspezione nasce come una serie di demo: fruscii, cigolii di sedie, palmi sul dorso della chitarra a simulare la cassa, qualche piccolo inserto di archi e tante, tante sovra-incisioni di voci. L’uso della voce è uno dei tratti più autentici di Justin Vernon e di questo disco in modo particolare: un frequente falsetto obliquo, armonie che procedono parallele, a condensare come una nebbia gelida il calore morbido della sua chitarra.

L’apertura di Flume, la più “leggera” Skinny love, l’incespicante Creature fear, sino alla toccante Re:stack, disegnano un viaggio in un’innevata solitudine, guardandosi dentro senza mai cadere in comodi cliché. Il percorso dei Bon Iver da qui in poi sarà un rapido allontanamento dall’atmosfera irripetibile di questo lavoro. Un’atmosfera che, per stessa ammissione di Vernon, rappresenta qualcosa che aveva il suo senso soltanto in quel momento e in quel luogo.

 

Quattro dischi per ascoltare musica in solitudine, a occhi chiusi. Quattro dischi abituati a prendere i loro spazi, capaci di riempire chilometri di vuoto.

Dopotutto, il tempo per qualcosa di bello di certo ora non ci manca.

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