Aung Saa Suu Kyi, da eroina a colpevole di crimini umanitari


Ora primo ministro birmano, Aung Saa Sun Kyi , nel 1991 fu insignita del Nobel per la pace. Le ragioni: la strenua difesa dei diritti umani e l’opposizione al regime dittatoriale di Saw Maung in Myanmar, per cui fu condannata a quindici anni di arresti domiciliari e poi a uno stato di semi libertà, un’ingiustizia che i media di tutti il mondo trattarono e denunciarono, costruendo poco a poco il mito di Aung Saa Sun Kyi. Questo mito è rovinosamente crollato dal momento in cui, con la carica di primo ministro birmano, Aung Saa Sun Kyi ha mostrato un volto che nessuno si aspettava.

Questo volto di Aung Saa Sun Kyi le è costato la revoca del premio di Ambasciatore della coscienza da parte di Amnesty International, accompagnata da parole molto dure di disapprovazione e di delusione nei confronti del suo atteggiamento passivo o addirittura spesso complice di crimini disumani. Un comportamento che è stato visto come un tradimento vergognoso dei valori per cui tempo fa combatteva e che l’hanno portata a farsi conoscere e apprezzare a livello mondiale. Anche il vicepresidente statunitense Mike Pence durante la sua visita in Myanmar non ha risparmiato le critiche nei suoi confronti, sulla scia delle critiche di Amnesty International ed anche delle Nazioni Unite, definendo assolutamente priva di scuse la tragica situazione in cui si trovano migliaia di persone della comunità Rohingya.

Gli organismi internazionali parlano di vero e proprio genocidio per quel che riguarda la comunità Rohingya, o anche di pulizia etnica. Almeno 10.000 sono le persone uccise a causa delle loro credenze religiose. Infatti, i Rohingya sono una minoranza musulmana in un paese quasi interamente di fede buddista.

I numeri e i fatti sono spaventosi, senza contare almeno la situazione delle almeno 700.000 persone che da un anno a questa parte sono state costrette a fuggire in Bangladesh per evitare la persecuzione. Il Bangladesh si trova in seria difficoltà a gestire un afflusso tanto ingente di immigrati e a sopperire per quanto possibile alle loro esigenze e gli immigrati stessi vivono in situazione di estrema precarietà in una sorta di terra di nessuno, che costituisce piuttosto che un posto sicuro, l’ennesima minaccia alle loro vite. Questo perché in quella zona geografica è la stagione dei monsoni, e anche perché per costruire i loro rifugi in maniera precaria (e con materiali poco solidi come plastica e bambù), attaccati l’uno all’altro quasi senza spazio per passare dall’uno all’altro, i rifugiati hanno privato il territorio sabbioso della vegetazione che lo rendeva meno propenso a frane o cedimenti.

Ma chi si trova in queste situazioni a rischio è stato comunque più fortunato di chi invece non è riuscito a sfuggire alle persecuzioni. Il carnefice principale è l’esercito, che agisce prevalentemente solo, e costituisce un organo a parte, indipendente dal governo. Nonostante Aung Saa Sun Kyi non abbia potere sull’esercito è stata comunque e giustamente accusata di negligenza e di tacita connivenza. La sua posizione neutrale agli eventi, ma appunto per questo colpevole, è dimostrata dalla frase con cui ha commentato l’azione o non azione del suo governo a protezione della vita dei Rohingya, ovvero che il loro trattamento avrebbe potuto essere stato “gestito meglio”.

Le denunce da parte di UN e US, o la visita del vicepresidente Pence non hanno provocato una reazione significativa da parte del governo birmano. Questa settimana inizierà tutta via il rimpatrio di alcuni immigrati dal Bangladesh al Myanmar, dove però non hanno ancora diritto di cittadinanza. Li aspetta un destino incerto, molto rischioso e difficile, la cui unica àncora di salvezza può essere il continuo monitoraggio internazionale insieme a denunce e possibili sanzioni.

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