Lo Sprar, almeno fino a ieri


Fino a pochi mesi fa, quando raccontavo che lavoro in uno Sprar, in pochi avevano idea di che cosa fosse. Oggi, invece, se ne parla molto (perché il ministro dell’Interno vorrebbe depotenziarlo). Ma quanti sanno cos’è? A giudicare dai commenti sui social, dagli articoli di giornale e dalle chiacchiere sentite per caso, direi pochi.

D’altronde come dar loro torto? Lo Sprar, acronimo di Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, è una modalità di accoglienza complessa ed eterogenea, migliorabile certamente, ma frutto di un tentativo delle pubbliche amministrazioni di approcciarsi al fenomeno dell’immigrazione in un’ottica programmatica e non emergenziale, un tentativo che stava dando dei risultati, e che rischia di scomparire grazie al DL Sicurezza 2018.

Quello che attualmente si chiama Sprar è l’ultima tappa del percorso di accoglienza italiano, che prevede per i richiedenti asilo non economicamente autosufficienti prima un passaggio dagli hotspot, dove le persone si trovano in una condizione di detenzione per un periodo che non potrebbe superare le 72 ore.

Segue il trasferimento in CAS o in CARA dove alle persone vengono garantiti vitto, alloggio, consulenza legale, supporto sanitario, corsi di italiano e “attività di volontariato” obbligatorie, in attesa della fine del percorso giuridico che stabilirà se hanno diritto o meno di restare nel nostro Paese (percorso che può durare da 1 a 5-6 anni). Bisogna aggiungere che, sebbene non siano stati previsti finanziamenti per la formazione professionale delle persone accolte, spesso chi gestisce i Cas si è adoperato per trovare modalità alternative per permettere alle persone di conseguire attestati e certificazioni, e cominciare a mettere le basi per il proprio futuro in Italia, mentre con il DL Sicurezza i richiedenti asilo non potranno più partecipare a corsi di formazione.

Infine, è prevista la possibilità di accedere allo Sprar (che finora era aperto a tutti gli stranieri, mentre con il DL Sicurezza vi potranno entrare solo i titolari di protezione internazionale, con ovvie conseguenze), tramite apposita domanda e successiva autorizzazione da parte della Prefettura locale e verifica della disponibilità dei posti in tutta Italia, attraverso la Banca dati dello Sprar Nazionale.

Ma cosa succede nello Sprar? Sul sito si legge: “A livello territoriale gli enti locali, con il prezioso supporto delle realtà del terzo settore, garantiscono interventi di “accoglienza integrata” che superano la sola distribuzione di vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico”.

Al di là dei tecnicismi, tutto ciò significa che il capofila dei progetti Sprar è un ente locale che affida, tramite bando pubblico, la gestione del progetto a associazioni o cooperative del territorio, che anticipano le spese (che vanno poi totalmente rendicontate) e che sono sottoposte a controlli periodici.

Chi entra nello Sprar lo fa dopo diversi mesi o anni di accoglienza in un Cas, e viene seguito da educatori e operatori sociali con l’obiettivo di diventare autonomo, in 6 brevissimi mesi (che in alcuni casi possono aumentare), dal punto di vista lavorativo e abitativo.

Per favorire l’autonomia lo Sprar fornisce ai beneficiari accompagnamento ai servizi del territorio, percorsi individualizzati, corsi di italiano, corsi di formazione professionale (sia creati ad hoc che aperti a tutta la cittadinanza), tirocini formativi e di inserimento lavorativo, sostegno nella ricerca attiva del lavoro, e, infine, supporto nella ricerca dell’alloggio.

I buoni propositi e la voglia di emancipazione degli immigrati, però, spesso si scontrano con la burocrazia e la realtà: ogni persona ha delle caratteristiche peculiari, e non sempre il territorio è in grado di offrire risposte adeguate ai bisogni in tempi ristretti.

Giusto per fare qualche esempio: una persona arrivata in Italia analfabeta potrebbe non essere in grado di raggiungere un livello di conoscenza dell’italiano tale da permettergli di frequentare un corso di formazione, potrebbe avere problemi a rendere utilizzabili in Europa le sue competenze pregresse (o potrebbe non avere competenze), per cui allo scadere dei 6-10 mesi potrebbe non aver raggiunto l’autonomia economica e finire in strada, o decidere di lavorare in nero, chiedere l’elemosina, finire nel giro dello spaccio o della prostituzione, entrare nell’illegalità.

E ancora, una persona che riesce a ottenere un contratto di lavoro, anche a tempo indeterminato, potrebbe comunque avere problemi a trovare una sistemazione alloggiativa dignitosa, con l’inevitabile conseguenza che, finita l’accoglienza, potrebbe andare in strada o prendere in affitto una camera in nero.

Ma ci sono anche percorsi virtuosi: giovani non scolarizzati che in Italia riescono a prendere la licenza media, trovare lavoro e casa, perché hanno costruito attorno a loro una rete di conoscenze e amicizie forte; persone che pur non arrivando alla fine del percorso con un lavoro stabile e un contratto di affitto, hanno acquisito comunque gli strumenti per continuare in autonomia la difficile strada dell’integrazione socio-lavorativa; uomini e donne che alla fine del percorso si sono costruiti una famiglia multiculturale.

Si potrebbero fare ancora molti esempi, ma credo sia chiaro ed evidente che il funzionamento di qualunque progetto di accoglienza dipende da molti fattori: una buona gestione dei centri, finanziamenti adeguati, la partecipazione attiva dei beneficiari e la collaborazione della cittadinanza. E soprattutto, una legislazione che spinga gli stranieri verso la legalità e l’autonomia, non verso l’emarginazione, la ghettizzazione, l’illegalità e la sussistenza, come sembra invece voler fare l’attuale governo.

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