ILVA: questioni ambientali, contraddizioni politiche e accordi economici


L’utopistica promessa dei 5 stelle di chiudere lo storico stabilimento siderurgico dell’ILVA (o di riconvertirlo attraverso il reddito di cittadinanza) si è infranta sulle reali esigenze di un Paese nel quale l’economia non può passare in secondo piano.

È così che il caso Ilva, conclusosi con il sì all’accordo dei lavoratori dell’acciaieria di Taranto, potrebbe – anche attraverso le sue evoluzioni (ora che in campo è entrata la multinazionale Arcelor Mittal) – assumere un ruolo centrale nella definizione dei giochi di potere tra chi, con le sue posizioni radicali e destrutturanti, si scontra per l’ennesima volta con l’arte del possibile e chi da sempre ha ben chiara l’arte della politica.

Un po’ di storia

Nata nella seconda metà del Novecento, l’ILVA di Taranto oggi è la più grande acciaieria d’Europa ed è diventata centrale per l’economia italiana.

Nel 2012 viene sequestrata per violazioni delle regole sull’inquinamento, con il conseguente arresto di alcuni suoi dirigenti. Onde evitare un ingente danno all’economia nazionale, il governo si è quindi mosso in diverse direzioni, dapprima approvando provvedimenti speciali che hanno consentito allo stabilimento siderurgico tarantino di inquinare più dei limiti di legge (per scongiurarne la chiusura imminente), poi commissariando la società e infine decidendo di venderla.

Nel 2016 giungono al governo circa 20 offerte di acquisto. Di queste ne restano in piedi due: quella di Arcelor Mittal e quella di Jindal. Alla fine prevale l’offerta di Arcelor Mittal, che a differenza della concorrente propone anche un piano di risanamento ambientale.

Le trattative

I sindacati e Mittal cominciano a trattare un anno fa. Si susseguono incontri mediati dall’ex ministro Carlo Calenda e dall’ex vice ministro Teresa Bellanova, ma non si riesce a giungere a un accordo. La bozza di intesa Calenda, presentata il 10 maggio scorso, che prevedeva 10.000 assunti, non convince i sindacati.

Nel frattempo il Paese entra in campagna elettorale per le politiche 2018 e il Movimento 5 Stelle si mostra critico nei confronti delle scelte adoperate dal Partito democratico, esprimendo non poche riserve sulla legittimità della gara organizzata dal ministro Calenda e proponendo la chiusura dell’impianto siderurgico e una sua riconversione produttiva.

Il leader pentastellato raccoglie consensi e all’indomani delle elezioni lo scenario politico è capovolto. Il Movimento è il primo partito d’Italia e Di Maio ottiene la poltrona al Ministero dello Sviluppo, ereditando così anche le trattative per l’ILVA.

A fine agosto, però, Di Maio, durante una conferenza stampa dichiara che sebbene il governo continui a ritenere illegittima la gara, non esistono i presupposti per annullare la gara, pertanto continueranno le trattative con la multinazionale indiana che si è aggiudicata l’appalto.

L’accordo con Di Maio e il referendum
Con la gestione del ministro Luigi Di Maio si è aperta la fase conclusiva del negoziato: partiti con una proposta di 10.300 occupati (300 in più rispetto a quelli previsti dalla bozza Calenda), si è arrivati a 10.700 (grazie alle pressioni dei sindacati).
Sul tavolo delle trattative anche il nodo ambientale, sul quale già un anno fa Arcelor Mittal aveva fatto leva per aggiudicarsi la gara.

Due giorni fa il referendum a Taranto, che approva l’accordo sull’Ilva tra Arcelor Mittal e i sindacati metalmeccanici, ha chiuso definitivamente i giochi. Dopo quattro giorni di assemblee in fabbrica, le operazioni di scrutinio si sono concluse con il sì all’intesa al 94%.

Egualmente elevata la percentuale di consenso che c’è stata nei giorni scorsi nelle altre fabbriche, anch’esse chiamate al referendum: a Genova l’accordo ha ricevuto il 90,1% di voti favorevoli, a Novi Ligure l’89,4%, a Racconigi l’87% e a Marghera il 63%.

Le reazioni
Dalla prossima settimana, dunque, Arcelor Mittal entrerà in azienda e per un mese e mezzo sarà in coabitazione e collaborazione stretta con Ilva. Il subentro effettivo e formale della multinazionale avverrà il 1° novembre.

Positive le reazioni del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, e del presidente di Confindustria TarantoVincenzo Cesareo. «Alla fine ha prevalso il buon senso in tutti e la politica strumentale ha fatto un passo indietro» dice Melucci riferendosi a quanti, tra Cinque Stelle e ambientalisti radicali, hanno battuto sulla chiusura dell’Ilva. «L’accordo è positivo, si chiude una fase molto difficile, ma la vera partita comincia adesso. – dichiara Cesareo – Il rilancio industriale dell’Ilva e il suo risanamento ambientale possono essere una battaglia vincente se si lavora tutti insieme, se c’è condivisione e se il nuovo investitore si apre al territorio e si confronta positivamente con esso. Penso che Mittal lo farà senz’altro».

Secondo Fim, Fiom e Uilm nazionali, «dopo 6 anni dal sequestro dell’area a caldo, 12 decreti salva Ilva e decine di scioperi, con l’approvazione dell’accordo da parte dei lavoratori, si chiude una delle vertenze più complesse del nostro Paese. L’intesa raggiunta – si afferma – porta in dote 4,2 miliardi di investimenti per il rilancio del siderurgico, 1,25 miliardi industriali, 1,15 miliardi ambientali a cui si sommano 1,2 miliardi sequestrati ai Riva per le bonifiche e l’ambiente. Risorse ingenti che serviranno a rendere sicuro, sostenibile ambientalmente e competitivo il sito tarantino, con l’autorizzazione integrata ambientale per il sito tarantino tra le più restrittive d’Europa».

Delusi, invece, tutti coloro che in questi mesi, rivolgendosi a Di Maio e al ministro dell’Ambiente Sergio Costa e al ministro della Salute Giulia Grillo, chiedevano la dismissione dell’ILVA.

Nel mirino i cinque parlamentari pentastellati eletti a marzo, accusati di “tradimento elettorale” e invitati a dimettersi.

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