Messico, ritratto di un Paese allo sbando


Los Zetas. El Chapo Guzmán. Ciudad Juárez. Chi non conosce questi nomi, tra i più noti nella hall of fame del narcotraffico internazionale? Ma c’è una sopresa: non sono i narcos la sola ragione per cui il Messico è costantemente in cima alla classifica dei Paesi più pericolosi del mondo.

Con l’instabilità seguita ai 71 anni di governo ininterrotto da parte del Partido Revolucionario Institucional, infatti, a partire dal 2000 il Paese è entrato in una spirale di violenza aggravatasi con la cosiddetta “guerra al narcotraffico”, dichiarata dal presidente Enrique Peña Nieto a fine 2012.

Una conflitto aperto che di fatto ha militarizzato il Messico: alla violenza causata dalla criminalità organizzata si è presto affiancata quella perpetrata da politici e funzionari corrotti, che per difendere i propri interessi hanno alimentato un clima di impunità generale e sospensione di fatto dei diritti umani.

Non un Paese per giornalisti

I primi a pagare sulla propria pelle il prezzo di una situazione del genere sono i giornalisti: il Messico è attualmente considerato il Paese più pericoloso al mondo per fare informazione tra quelli non in guerra. I numeri sono impietosi: 114 giornalisti uccisi dal 2000 a oggi, di cui 41 negli ultimi sei anni, ai quali vanno aggiunti 25 operatori dell’informazione scomparsi.

Ogni 20 ore in Messico si verifica un’aggressione contro la stampa. Ma il dato più sorprendente – tra quelli riportati da Cynthia Rodriguez all’ultimo Festival del Giornalismo di Perugia – è che solo il 13% di questi attacchi è attribuibile ai narcos, mentre il 53% avviene ad opera di funzionari pubblici corrotti.

Non solo dunque uno scenario allucinante – completato dal tasso d’impunità pari al 99,7% per i reati di questo genere – ma una narrazione completamente falsata da parte delle autorità, confezionata per attribuire l’intera responsabilità di questa situazione alla criminalità organizzata.

Nessun diritto

A fare le spese di una simile realtà, ovviamente, è anche la popolazione civile: sono più di 30mila le persone delle quali amici e familiari hanno perso ogni traccia, i nuovi desaparecidos. Una parola che da sola basta a rievocare un tragico passato per l’America Latina.

Emblematico tra i tanti il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi il 26 settembre 2014 e mai più ritrovati. Dopo insabbiamenti e depistaggi di ogni genere da parte delle autorià, i familiari hanno recentemento ottenuto la ripertura del caso, ma arrivare alla verità resta comunque tutt’altro che facile.

Il fenomeno delle sparizioni in Messico è ormai diventato endemico. Ma non è l’unico fronte aperto sul versante dei diritti umani: altro bersaglio privilegiato sono le donne, che al pari di altre categorie socialmente fragili sono costantemente vittime di abusi, violenze e omicidi. Anche da parte di cittadini comuni che approfittano del clima generale d’impunità, come dimostra l’assassinio di Marisela Escobedo.

Contro i soprusi nei confronti delle donne combattono coraggiosamente realtà come il Centro de Derechos Humanos de las Mujeres fondato da Lucha Castro a Chihuahua, mentre altre ong organizzano corsi per la ricerca dei desaparecidos o l’autodifesa dei giornalisti. Il fatto che siano le associazioni a farsi carico di esigenze basilari di questo genere sottolinea una volta di più la totale assenza dello Stato.

Novità dalle urne?

In questo panorama apparentemente senza speranza, lo scorso 1° luglio si sono svolte elezioni dall’esito largamente previsto ma non per questo meno rilevante. Presidente del Messico dal prossimo dicembre sarà infatti Andres Manuel Lopez Obrador, il primo non espresso dai tradizionali partiti di governo.

Leader populista alla messicana, Obrador ha vinto le elezioni alla guida di una coalizione talmente composita che risulta complicato prevedere la direzione politica che prenderà il suo governo. Presentato come il primo politico di sinistra alla guida del Paese, il suo mandato potrebbe portare una svolta rinnovatrice o schiacciare sotto una pietra tombale le ultime speranze dei messicani.

Ora è da vedere – senza sperare in cambiamenti epocali soprattutto in politica economica – se Obrador sarà in grado di ripristinare almeno le garanzie dei diritti umani fondamentali per una popolazione ormai ridotta allo stremo da vent’anni di violenza, corruzione e impunità senza quartiere.

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