Strage di via d’Amelio e trattativa Stato-mafia: due sentenze per una svolta


Ventisei anni per un pezzo di verità. Tanto hanno dovuto attendere i familiari di Paolo Borsellino – e con loro l’Italia intera – per avere le prime risposte sulla strage di via d’Amelio, in cui il giudice palermitano perse la vita insieme a cinque uomini della sua scorta il 19 luglio 1992.

Un quarto di secolo abbondante ci è voluto anche per le prime certezze sulla trattativa Stato-mafia, al centro di una sentenza le cui motivazioni sono state depositate qualche giorno fa. Due vicende strettamente connesse, da riconsiderare completamente alla luce degli elementi emersi in queste settimane.

Strage di via d’Amelio: depistaggio di Stato

Finora non era stato possibile fare piena luce sulla morte di Paolo Borsellino per la singolare concomitanza, intorno al delitto, di almeno due circostanze in grado di depistare le indagini: la testimonianza fuorviante del pentito Vincenzo Scarantino e la sparizione dell’agenda rossa, il diario del giudice di cui nel corso del tempo qualcuno ha persino messo in dubbio l’esistenza.

Fin qui niente di nuovo, verrebbe da dire. Il vero elemento di novità del processo Borsellino quater è la scoperta che a orchestrare questo depistaggio siano stati «soggetti inseriti negli apparati dello Stato», al punto da spingere la Corte d’assise di Caltanissetta a parlare di «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana».

Conclusioni pesantissime, che emergono con particolare evidenza dalle motivazioni di una sentenza in cui le toghe spiegano come fossero tre funzionari di polizia in servizio proprio a Palermo a dare a Scarantino gli elementi per rendere le sue deposizioni credibili – anche se false – attingendo evidentemente a informazioni di prima mano sulla strage.

Come questo fosse possibile è ancora tutto da verificare, come dovrà appurare il nuovo processo che vedrà imputati proprio i tre poliziotti chiamati in causa dal Borsellino quater. Quel che è certo è che per la prima volta la strage di via d’Amelio si affianca a quelle degli anni di piombo nella macabra galleria delle stragi di Stato, con nomi e cognomi delle persone direttamente coinvolte e di chi scelse di voltarsi dall’altra parte.

Trattativa Stato-mafia: da ipotesi a certezza

Come si collega la trattativa Stato-mafia al delitto Borsellino? Quanto sapeva il giudice palermitano del dialogo tra istituzioni e criminalità organizzata? A queste e altre domande rispondono le motivazioni della sentenza arrivata a conclusione del processo sulla trattativa.

Motivazioni che evidenziano come Borsellino fosse informato della trattativa, quindi ancora più scomodo per Cosa Nostra, mentre lo Stato si trovava già in una posizione di debolezza per aver acconsentito a cominciare un dialogo con la mafia dopo la strage di Capaci.

La concomitanza tra questi due fattori porta la Corte d’assise di Palermo a concludere che «la trattativa Stato-mafia accelerò la morte di Borsellino», potenziale ostacolo alla trattativa stessa oltre che principale erede del pool antimafia del Maxiprocesso di Palermo dopo la morte di Falcone.

Altro elemento chiave che emerge dalle motivazioni della sentenza è la conferma del ruolo di Marcello Dell’Utri – condannato a 12 anni – nel fare da tramite tra la neonata Forza Italia di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, alla ricerca di un nuovo interlocutore politico dopo l’azzeramento operato da Tangentopoli.

Accanto al nome di Dell’Utri spiccano quelli di altri condannati eccellenti: i Carabinieri Mori, Subranni e De Donno, il boss Leoluca Bagarella. Non meno importanti gli esponenti delle istituzioni che per oltre vent’anni hanno fatto finta di non sapere, a proposito dei quali la sentenza parla di «eclatanti dimenticanze di Stato».

Due sentenze per una svolta?

All’indomani del 26° anniversario della strage di via d’Amelio arrivano dunque due motivazioni di altrettante sentenze in grado di gettare nuova luce su quel buco nero della storia italiana che va dall’uccisione di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) a quella di Paolo Borsellino (19 luglio 1992).

Ci è voluto molto tempo. Meno di quello necessario a conoscere la verità sulle stragi degli anni di piombo, ma comunque troppo. Del resto, «in Italia i tempi sono da elefanti»: non è certo una novità. Ma almeno ora conosciamo più da vicino il ruolo dello Stato in questi due gravissimi episodi del nostro recente passato.

Un ruolo ancora una volta colpevole, da traditore dei suoi servitori più fedeli, ai quali venne fatto mancare il terreno sotto i piedi proprio nel momento del bisogno più grande. E che forse si può redimere soltanto facendo ogni sforzo possibile per far emergere tutta la verità sulla lunghissima stagione delle stragi.

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