Estopia capitolo IV – Il temporale


Capitolo precedente: La fattucchiera

 

Il giovedì successivo all’incontro con la vecchia signora Jennings qualche nube di troppo sembrò volersi accumulare all’orizzonte ma finì col dileguarsi in fretta, riportando la tranquillità nell’animo dei paesani che temevano di dover gestire l’arrivo di un temporale. Visto che la scuola non era ancora ricominciata, quando non dava una mano alla madre in negozio, Freyja si divideva tra le scorribande con gli amici e i pomeriggi di ricamo. Di nuovo, come cinque anni prima, il ricordo di Lidia e del loro incontro stava sbiadendo in fretta.

Il venerdì, tuttavia, le nuvole tornarono ad addensarsi dalle parti di Colle Ortica e stavolta non sembravano intenzionate a dissolversi.

Con il passare delle ore la tensione salì tra gli abitanti di Belafois e alcuni commercianti decisero di chiudere prima le loro botteghe. Il negozio di dolciumi rimaneva aperto ma, dentro, Freyja e la commessa Martha erano tutt’altro che rilassate. Negli anni Freyja non aveva perduto il sacro terrore nei confronti della pioggia, anche se poi, a pensarci bene, da quando aveva litigato con Lidia era piovuto solo due o tre volte e sempre piuttosto debolmente.

Stavolta, invece, le nuvole apparivano le più minacciose che Freyja avesse mai visto. Alle sei di pomeriggio il sole di settembre era stato completamente oscurato e tutti erano certi che, di lì a pochi minuti, sarebbe venuto giù un vero e proprio diluvio. A quel punto, la madre di Freyja decise che fosse arrivato il momento di chiudere il negozio, anche perché in giro non si vedeva più anima viva. Martha tornò a casa correndo e Freyja si rifugiò in camera sua, piuttosto di malumore: Fiona e Ben, se possibile, erano terrorizzati dalla pioggia più di quanto non fosse lei e questo escludeva qualsiasi possibilità di infondersi un briciolo di coraggio a vicenda.

Lei ed i suoi cenarono in silenzio che non erano ancora le sette e nessuno dei tre dimostrò un grande appetito. Poco dopo aver finito di mangiare, le prime gocce di un temporale iniziarono a ticchettare contro i vetri delle finestre del soggiorno. A quel punto, il vice-sindaco e sua moglie stabilirono, un po’ vigliaccamente, che per quel giorno non ci fosse più molto altro da fare se non andare a farsi una bella dormita e, in men che non si dica, Freyja si ritrovò da sola a salire le scale con una candela per la notte e la casa immersa nel silenzio. Cioè, tutto taceva a parte la pioggia fuori che, rapidamente, aumentava di intensità.

Una volta in camera, Freyja si rintanò tra i cuscini, sul letto, cercando di pensare a qualcosa che non fossero i tuoni o la terrificante luce dei fulmini. Avrebbe voluto andare ad accoccolarsi nel letto dei genitori ma era davvero troppo grande per un’iniziativa così audace.

La candela tremolava, disturbata dagli spifferi che filtravano tra le travi del soffitto. Freyja iniziò a spogliarsi ma mentre cercava di infilare la camicia da notte senza farla rimanere impigliata nelle forcine che aveva in testa, un tuono più odioso degli altri piombò nel silenzio facendole lanciare un piccolo grido.

Accidenti, quasi quasi aveva voglia di piangere!

Finì di abbottonare la lunga veste bianca e si avvolse le spalle in uno scialletto ricamato, cercando con tutta se stessa di mantenere un briciolo di dignità nei movimenti. La sola idea di dover spegnere la candela la atterriva e sapeva già che di dormire non ci sarebbe stato verso.

Così, dopo quasi una settimana dal loro incontro inatteso, si ritrovò a rimpiangere Lidia e le storie con cui riusciva ad allontanare tutto quello che di brutto sembrava celarsi nella pioggia.

Istintivamente, estrasse il cofanetto azzurro da sotto i cuscini e lo aprì. Rimase profondamente sorpresa nel constatare che la lunga pietra dell’orecchino era venata da guizzanti lampi bluastri, come se al suo interno si stesse scatenando la stessa tempesta che infuriava sui tetti del paese. Sfiorò lo strano gioiello e, al contatto con le sue dita, il brillio divenne più intenso; contemporaneamente, un fulmine rapido illuminò il soffitto della stanza, subito seguito da tuono fragoroso.

Freyja gridò e lasciò cadere a terra il piccolo scrigno. L’orecchino schizzò sul pavimento mentre un’improvvisa, violenta folata spalancò le ante della finestra. Scrosci di pioggia presero a riversarsi nella camera, inzuppando il tappeto di lana mentre Freyja, mezza morta per la paura, rimaneva sepolta sotto le coltri del letto. Rimase così per qualche secondo, sperando che i genitori si affacciassero a controllare cosa fosse tutto quel baccano. Dopo poco però dovette farsi coraggio ed alzarsi a chiudere i battenti, mentre mulinelli di vento gelido facevano vorticare fogli, nastri, disegni ed altri oggetti in mezzo alla camera.

Saltò giù dal letto con gli occhi chiusi e inciampò nel porta candele rovesciato accanto del letto. Fu così costretta a riaprire gli occhi per vedere la sua stanza trasformata nella rosa dei venti: l’unica fonte di illuminazione, peraltro assai potente, proveniva dalle guizzanti saette nel cielo. Il cuore nel petto di Freyja martellava, talmente incontrollato da coprire quasi il rumore dei tuoni.

Corse verso la finestra spalancata e cercò di afferrare le imposte che sbattevano; con fatica era quasi riuscita a fissarle tra loro, quando il suo sguardo si posò su uno spettacolo apocalittico che la lasciò a bocca aperta.

Alta, nel cielo sopra la sua casa, un’enorme massa di nuvole ribolliva e roteava a velocità folle, sprigionando dal suo centro giganteschi fulmini argentei che sembravano correre a conficcarsi nel Pratone delle Margherite. Freyja arretrò pallida e bagnata mentre le ante della finestra tornavano a sbatacchiare contro il muro. Scivolò in ginocchio mentre il vortice di nembi assumeva la forma più definita di un enorme drago scuro.

Una cosa che Freyja pensò mentre, con la sensazione che le avessero risucchiato dal corpo anche l’ultimo briciolo di forza, appoggiava a terra i palmi delle mani, fu che, con molta probabilità, stava per morire. Si riscosse però accorgendosi di avere premuto la mano su qualcosa di molto caldo e dalla forma allungata: abbassando lo sguardo, vide accanto a sé la sagoma lucente del pendaglio nero e, istintivamente, lo afferrò.

Nel medesimo istante una luce fredda irruppe nella stanza e la figura sottile di Lidia si materializzò tra lei, la finestra e il mostruoso animale sbucato dal vapore.

Lidia alzò una mano biascicando parole in una lingua che Freyja non riuscì a comprendere. Una violenta sferzata di pioggia minacciò di schiacciarla con la sua ira ma Lidia, ridendo fragorosamente, saltò sul davanzale facendosi ancor più vicina all’orrenda creatura. Tese di nuovo le mani e gridò qualcosa che sembrava un comando, la luce grigia saettò di nuovo e si udì un tuono rombare fin nelle profondità della terra. Poi, con un sibilo agghiacciante, il vortice di nubi si dissolse e il vento sembrò calmarsi un poco.

Mentre la tempesta si trasformava in una pioggia impalpabile e fitta, Lidia si voltò verso Freyja sorridendo debolmente. La lunga pietra nera al suo orecchio emanava bagliori terrificanti, i suoi occhi di solito verdi, sembravano neri come il carbone e le iridi dilatate si confondevano con l’oscurità che aveva inondato la stanza. Lidia avanzò porgendole la mano. Per tutta risposta, Freyja chiuse gli occhi e svenne.

La mattina dopo si risvegliò nel suo letto. Ogni cosa, nella camera, sembrava asciutta e in ordine, come se niente fosse accaduto. Per un lungo momento Freyja pensò di aver avuto un terribile incubo ma voltando lo sguardo verso la finestra, notò sul davanzale il lungo orecchino di Lidia.

La pietra era nera e opaca, ora priva di luce ma Freyja ricordava perfettamente come avesse brillato solo poche ore prima.

Si vestì e scese in cucina, la madre era seduta al tavolo con un’espressione accigliata.

“Stanotte si è scatenata la tempesta più violenta da un secolo a questa parte, Fy. Per poco non crollava la torre del municipio. Tuo padre è riunito in Consiglio con gli anziani e i notabili praticamente dall’alba.” Le disse alzandosi per versarle una ciotola di latte bollente.

“Il Pratone delle Margherite è ridotto a un colabrodo: pare che trentasette fulmini siano andati a schiantarsi lì ed ora, al posto dei fiori, ci sono trentasette crateri fumanti.” Aggiunse mentre Freyja la fissava in silenzio.

“Il lago è pieno di cariche elettrostatiche, tu e i tuoi amici non dovete accostarvi all’acqua per nessun motivo.” Concluse. “Tuo padre è stato categorico. Non bisogna prendere iniziative finché il Consiglio non si sarà sciolto”.

E così sedette di nuovo stringendo le mani intorno alla sua, ormai tiepida, tazza di tè.

Freyja pensò che, prima di mezzogiorno, avrebbe dovuto trovare qualcuno disposto a bucarle uno dei lobi delle orecchie e, strano a dirsi, la prima persona che le venne in mente fu una vecchietta paralitica e stralunata che aveva superato da parecchio l’età in cui ci si bucano i lobi.

Arrivò alla casa della signora Jennings trafelata. Nell impiegò un po’ ad aprire la porta.

“Stanotte non sono riuscita a chiudere occhio! Grazie al cielo, la mia camera affaccia sul cortile interno: se oltre a sentire tutti quei tuoni avessi anche assistito allo spettacolo di lampi che si è scatenato, ci avrei rimesso la salute!” Disse mentre accompagnava Freyja su per le scale.

Quando varcò la soglia del soggiorno, Freyja trovò la vecchia insegnante in poltrona, avvolta nella solita moltitudine di scialli.

“Sei tornata esattamente quando credevo.” La guardò, ridacchiando. “Non un minuto prima ma, che mi venga un colpo secco, nemmeno un attimo dopo!”

Questa constatazione parve divertirla molto, perché piuttosto a lungo la sua risata chiocciante fu l’unico rumore ad ingombrare la stanza

“Signora Jennings, io ho davvero bisogno che qualcuno mi spieghi cosa stia accadendo.” Attaccò Freyja con enfasi. “Questa notte ho assistito ad uno spettacolo che, se non lo avessi visto con i miei occhi e qualcuno me lo raccontasse, non esiterei a prenderlo per pazzo!”

La signora Jennings smise di ridere di colpo e il suo volto sembrò esprimere compassione: “Insomma, bambina, cos’è che hai visto di preciso?”

Già, cos’è che aveva visto Freyja? Forse, un groviglio di nuvole nere e tanta acqua da riempire da sola l’intero lago Appaloosa? Aveva assistito, per caso, ad una bufera di vento particolarmente intensa e al guizzare luminoso di una tempesta elettromagnetica? Magari la sua era stata suggestione dovuta al sentimento di puro terrore nutrito da sempre nei confronti della pioggia…

Nessuno pronunciò queste domande ma fu come se qualcuno le avesse scandite chiaramente nella mente di Freyja, perché quando rispose lo fece a voce alta e decisa.

“No, signora Jennings, so di non aver mai brillato per coraggio ma non è una fantasia dettata dalla paura la mia! Ho visto quello che ho visto e siccome lei sembra sapere molte più cose di quante non ne voglia lasciare ad intendere…” E qui lanciò un’occhiata intensa alla vecchietta. “Non credo dovrebbe avere grosse difficoltà a credermi!”.

Dal momento che la sua interlocutrice non sembrava intenzionata a rispondere, Freyja proseguì.

“Ho visto un drago gigantesco uscire da un ammasso di nuvole vorticanti. Io, credo…credo che si stesse dirigendo verso casa nostra, verso di me. Ero in piedi, accanto alla finestra spalancata, ho visto la tempesta di fulmini scatenarsi sopra il paese e una specie di buco aprirsi nel cielo. Poi, mentre cercavo di indietreggiare sono caduta e prima che trovassi la forza anche solo per svenire, è apparsa Lidia…Lidia, capisce?! E ha ricacciato quel mostro verso l’alto, lontano da me. Alla fine sono svenuta lo stesso e non so cos’altro sia accaduto ma stamattina la mia camera era ordinata come ogni giorno e Lidia era sparita.”

Quando si fermò, era stupita dalla lucidità della sua descrizione, non pensava di aver registrato tutto con tanta presenza di spirito. La signora Jennings continuava a tacere nella sua poltrona. Ad un certo punto disse con voce grave.

“Freyja, cosa ti ha dato Lidia, il giorno del tuo compleanno?”

Di nuovo tutto quell’interesse per l’orecchino, ma perché alla signora Jennings premeva tanto saperlo? Freyja esitò, non era più così sicura di potersi fidare, tutto stava diventando troppo fuori dal comune perché lei riuscisse a capire da sola come fosse giusto regolarsi. D’altra parte però, forse la vecchia insegnante di musica era l’unica persona che potesse darle qualche spiegazione e, in fondo, lei doveva pur fidarsi di qualcuno.

“Mi dato uno strano gioiello, con una lunga pietra nera al cui interno sembrano agitarsi linee di luce colorata…” Sentì il calore del piccolo monile aumentare lievemente, sotto il corpetto del vestito a cui lo aveva appuntato.

La vecchietta unì le mani e mandò un lungo sibilo, poi guardò Freyja.

“Credo che per la tua amica sia arrivato il momento di partire.” Disse e, subito dopo lasciò cadere a terra le coperte che le avvolgevano le gambe e si sporse sulla poltrona. “Aiutami ad alzarmi ragazza, ho idea che io e te abbiamo parecchie cose da fare e poco tempo per gingillarci.”

Senza una parola Freyja le fece scivolare le braccia intorno alla vita e la sostenne mentre la signora Jennings si issava faticosamente sulle gambe.

In una casa seminascosta nel folto della foresta di Ingrahm, Lidia sedeva, con gli occhi chiusi, in una poltrona sbiadita di fronte alle poche braci avanzate nel camino. La fronte, imperlata di sudore, era attraversata da una sottile ruga verticale che le donava l’espressione di chi stia ascoltando con molta attenzione qualcosa. Al suo orecchio, la pietra allungata rifletteva sommessamente i colori della notte artificiale, proiettando un tenue riflesso blu sulla sua guancia. Rimase in quella posizione a lungo, poi, si alzò, nel più assoluto in silenzio, recandosi sul retro della casa dove si apriva un buio cortile semicircolare.

Al centro del pavimento di pietra, ingombro di piante e vasi sbeccati, c’era un pozzo che aveva l’aria di trovarsi lì da molto prima che il cortile stesso e la casa vi fossero costruiti intorno. Lidia sollevò un sottile coperchio di legno e immerse nel pozzo un secchio di rame. Dopo aver ritirato la corda, riempì un catino e lo portò dentro la casa, deponendolo davanti al focolare. Allungò il palmo della mano verso le braci morenti e borbottò una parola in una lingua arcana, la stessa che Freyja non aveva compreso la notte precedente: subito il fuoco riprese vita, aggredendo il grosso ciocco che Lidia si era preoccupata di buttarci dentro. Quando la superficie dell’acqua nel contenitore scintillò del riflesso delle fiamme, Lidia la sfiorò con un dito e, chiudendo di nuovo gli occhi, recitò una breve invocazione. Poi rimase in attesa, senza muoversi, inginocchiata davanti all’acqua.

Dopo pochi secondi, il colore delle fiamme mutò in un rosso bruciante e i bagliori nella bacinella crebbero di intensità. Quando Lidia riaprì gli occhi, però, l’acqua non mostrava alcun riflesso e il fondo del catino era sparito: al suo posto si intravedeva l’immagine un po’ sbiadita di una città sui cui tetti si stavano riversando, sotto forma di pioggia, ettolitri di acqua. Lidia sfiorò di nuovo la superficie e la visione si dissolse; al suo posto, apparve qualcosa che assomigliava a un cespuglio immerso nel fango; socchiudendo gli occhi, Lidia poté vedere il cespuglio muoversi impercettibilmente mentre una figura molto male in arnese e coperta di stracci ne veniva fuori, zoppicando. L’uomo appariva vecchio e malato, il suo mantello logoro era fradicio e sembrava macchiato di sangue in più punti: il vecchio arrancò, tentando di avanzare sotto la pioggia, finché non parve inciampare e cadde in avanti nel fango. Lidia lo vide puntellarsi sulle ginocchia, tentando inutilmente di rialzarsi, proprio mentre altre due figure lo raggiungevano e lo sollevavano in fretta guardandosi intorno, furtive. La visione cambiò di nuovo e Lidia vide una lunga sala di marmo alle cui pareti pendevano pregiati arazzi e in fondo alla quale, dentro un gigantesco camino, bruciava un fuoco verde. Poco distante dal camino, un uomo di mezza età con una ricca veste rossa gridava qualcosa ad altri tre uomini armati di spada. L’uomo in rosso portava attorno al capo una fascia di metallo dorato e gesticolava, visibilmente agitato. D’un tratto sembrò tacere e si voltò rapido, quasi fissando Lidia attraverso la bacinella il cui fondo tornò improvvisamente visibile. L’acqua era sparita, sembrava evaporata, Lidia cadde seduta sul pavimento, turbata. “C’è mancato poco, c’è mancato pochissimo…sono stata molto imprudente…” Disse, poi la sua voce divenne un singhiozzo. “Nonno, nonno…! Cosa ti è accaduto?! Sei riuscito a liberarti ma a che prezzo?” I suoi occhi verdi brillavano nella penombra della stanza mentre calde lacrime le rigavano le guance. “Dove sei ora…oh degno sovrano, resisti: il mio esilio è finito! Ora cercherò di rendermi utile…ti salverò, ti salveremo! E libererò Luthen, infine…” Lidia rimase in quello stato di febbricitante prostrazione per molto tempo, almeno finché il sole del pomeriggio non fu tramontato completamente. A quel punto, qualcuno bussò alla porta.

 

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