Lidia
Erano le 23:30 quando Lidia arrivò alla stazione, e non c’era nessuno ad aspettarla.
Aveva piovuto, quel pomeriggio, l’asfalto era bagnato e l’aria della sera gelida. Lidia si strinse nel cappotto, prese le sue due valigie in pelle, e si avviò verso l’albergo.
Dalla finestra della casa di fronte una donna la osservava. Aveva seguito i movimenti del treno e poi quelli della ragazza bionda, senza mai staccare gli occhi dal vetro.
Al piano di sotto squillò il telefono.
« È arrivata.» disse la signora del piano di sopra.
«Bene.» rispose l’uomo.
L’albergo era una bettola a pochi passi dalla stazione, le camere erano spoglie e puzzavano di stantio. Lidia sistemò le sue cose: appese un paio di abiti nell’armadio, mise lo spazzolino nel bagno e infine tirò fuori dalla valigia un foglio di carta spiegazzato. Lo aprì, seduta sul letto, e rilesse per l’ennesima volta quello che era il motivo per cui era lì. Rassegnata, lo richiuse e si sfilò i vestiti sudati per infilarsi sotto la doccia.
L’uomo salì al piano di sopra. Aveva in mano una fotografia, ritagliata da un giornale.
« È lei.» disse la donna.
«Ne sei sicura?»
«Non ho alcun dubbio.»
«Allora dobbiamo muoverci subito.»
Quella notte Lidia non dormì sonni tranquilli. Le ombre del suo passato tornarono a farle visita, come accadeva spesso da quando aveva ricevuto quella lettera.
Non c’era più nessun luogo dove potesse sentirsi a casa e per questo aveva deciso di affrontare le persone che l’avevano contattata, alcune settimane prima, e che le avevano dato appuntamento in quel luogo dimenticato da Dio.
Se lei non si fosse presentata, diceva la lettera, sarebbero andati direttamente alla polizia. Per dire cosa, poi? Lidia non era davvero sicura che loro sapessero tutta la verità. In ogni caso un giorno o l’altro avrebbe dovuto fare i conti con le sue colpe, tanto valeva togliersi il pensiero.
Nemmeno la donna che abitava di fronte alla stazione riuscì a prendere sonno. Erano anni che aspettava quel momento, anni in cui aveva continuato ad immaginare come sarebbe stato guardare negli occhi quella giovane e non provare più nulla.
L’uomo del piano di sotto, suo complice, agiva solo per proprio tornaconto, ma lei non lo faceva per il denaro. Lei voleva solo liberarsi di quel peso che aveva sul cuore e che ormai troppo spesso le faceva mancare il respiro.
Non poteva portarsi quel peso nella tomba. Più passavano gli anni, più si convinceva di doversene liberare, così un giorno aveva raccontato tutta la storia al suo vicino, l’unico uomo del quale si fidasse, e con lui aveva organizzato tutto.
La lettera anonima, le minacce di spifferare tutto alla polizia, l’appuntamento al buio, non erano che un modo per alleggerirsi la coscienza una volta per tutte.
E finalmente quel giorno era arrivato.
Lidia si svegliò presto, si fece un’altra doccia per liberarsi della sporcizia dell’albergo e si preparò ad uscire. Prese con sé una delle due valigie e lasciò l’altra sul letto, semiaperta.
Il bar di cui parlava la lettera, quello in cui avrebbe trovato le persone che gliel’avevano inviata, era a pochi passi dalla stazione, e anche quello puzzava di abbandono. Dentro non c’era nessuno, a parte un uomo sulla cinquantina dietro al bancone, che nemmeno si voltò verso di lei quando varcò la soglia.
«Mi fa un caffè, per favore?» domandò Lidia, sedendosi ad uno dei tavoli.
L’uomo obbedì senza rispondere.
Passò una buona mezz’ora prima che qualcun altro mettesse piede nel bar.
Era una signora piuttosto anziana, robusta, che faticava a tenersi in piedi, e Lidia non pensò neanche per un istante che fosse lì per lei.
Nemmeno quando si sedette al suo tavolo e la fissò dritta negli occhi, con un’espressione carica di risentimento, nemmeno allora credette che quello sguardo fosse rivolto a lei.
«So chi sei.» disse la donna. «E so quello che hai fatto.»
Allora Lidia capì chi era. Eppure si era aspettata una persona diversa. Quella donna non somigliava affatto alla ragazza alla quale, cinque anni prima, lei aveva rubato l’identità.
«Sono sua madre.» spiegò la donna. «Lidia è morta in carcere un mese fa. Al posto tuo.»
Lo sapeva, la finta Lidia, sapeva già tutto.
«Non ho mai voluto uccidere nessuno. Volevo solo fuggire, non pensavo che gli eventi avrebbero preso questa piega.» Era la verità, ma serviva a ben poco ormai. «Qui ci sono i soldi che avete chiesto, anche se so che non le restituiranno sua figlia.»
Appoggiò la valigia sul tavolo e l’uomo dietro al bancone chiuse a chiave il negozio.
Poi si avvicinò a loro, e aiutò la donna a contare le banconote. La cifra era esatta.
«Posso fare altro per voi?»
«Puoi sparire per sempre.» rispose la donna.
Lidia si alzò e fece per andarsene, ma nessuno accennò a riaprire la porta.
L’uomo posò sul tavolo una pistola.
Quando la cameriera dell’albergo entrò nella camera di Lidia per le consuete pulizie trovò la sua valigia sul letto.
Era piena di effetti personali: carte, documenti e solo pochi abiti. In cima, ben visibile, trovò una fotografia. La riconobbe: era quella ragazza di cui avevano parlato tanto i giornali, quella che aveva truffato migliaia di persone e che, appena qualche settimana prima, era stata trovata morta nella sua cella.
Dietro la fotografia c’era una scritta, in una calligrafia leggera, che recitava:
“Se non torno in albergo, portate questa valigia alla polizia, loro sapranno cosa farne. Lidia riavrà la sua dignità.”
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