Holiday Destination di Nadine Shah


Cover del'album Holiday Destination di Nadine ShahHoliday Destination di Nadine Shah ha un titolo che potrebbe rievocare qualche becera opera dei fratelli Vanzina, ma mai siamo stati così lontani dal vero.

Nadine Shah sgombera subito il campo dai fraintendimenti sbattendoci in faccia una crudele copertina in cui campeggia un edificio in macerie, smembrato dalle bombe, con una figura umana che si intravede attraverso un muro crollato e, a far da cornice, un beffardo cielo terso che ci suggerisce quello che sarà il mood dell’album.

Ma, sia chiaro, in Holiday Destination di Nadine Shah, la terza opera dell’artista inglese di padre Pakistano (dettaglio non di poco conto visto quello che ci apprestiamo ad ascoltare), non c’è traccia di sarcasmo; siamo di fronte ad un opera monolitica che punta il mirino con estrema precisione contro il colpevole distacco di un Occidente preoccupato solo dalla sua routine sterile e fasulla per occuparsi del dramma dei migranti.

E tutto questo ci viene rovesciato addosso con un misto di furore giovanile (parliamo comunque di una classe ’86) e di austera raffinatezza, ma ora ci arriviamo…

Nadine Shah parte dalla cronaca del dramma delle condizioni dei migranti siriani nell’isola di Kos (anche se l’ispirazione nasce dal lavoro del fratello documentarista riguardo i profughi sul confine tra Siria e Turchia) per inferire dieci coltellate nel costato dell’indolente occidente, insensibile al dramma umano ma sin troppo sensibile riguardo alle proprie vacanze nell’isola del Dodecaneso, rovinate dallo sgradevole odore della tragedia.

La nostra Nadine non è nuova ad opere ispirate a temi di una certa delicatezza (il precedente e bellissimo “Fast Food” si districava nel labirinto della malattia mentale con grande e raffinata delicatezza) ma con Holiday Destination raggiunge un quadratura tra messaggio e strumento davvero rara.

Holiday Destination profuma di musica di protesta, ma lo è nel suo termine più alto e nel contempo viscerale, privo della retorica di troppo cantautorato che sa più di marketing che di lotta, che si riversa sulle dieci tracce senza tradire l’innata raffinatezza della cantautrice, con un ventaglio stilistico che spazia dalla Wave più oscura all’AfroBeat, passando per la Pj Harvey di “To Bring You my Love” e sfiorando territori jazz, senza mai perdere l’orientamento di un disco che mantiene un’invidiabile colorata compattezza (come riesce a tratti Hissing of Summer Lawns di Joni Mitchell).

Si comincia con A Place like this che introduce il viaggio con un sorrisetto sardonico (“Here, take this ribbon, Let it wrap around your wrist when you see it, remember of a home and place like this”) spalmato su una batteria stile Fela Kuti e chitarre riecheggianti i Talking Heads di “Remain in Light”, ma senza abbandonare mai il taglio austero e “nudo” del suono che ci accompagna per tutto l’album.

Nessuna concessione a trucchi e maquillage sonori, a malapena qualche reverbero e flanger per ricordarci che a Nadine piace evidentemente la dark wave (Siouxsie and the Banshees fanno più volte capolino).

La seconda, eloquente, Holiday Destination, con il ripetere ossessivo dell’interrogativo “How you gonna sleep tonight?” ha già spinto il dito nella piaga dopo appena 6 minuti di musica, mentre la successiva “2016” non indossa i guanti per darci il suo parere sulla politica mondiale (What is there left to inspire us with a fascist in the white house) e sulle frustrate e frustranti prospettive dei rampolli d’occidente (I feed on comments and the constant reassuring in retrospect it’s all boring like my friends who are detoxing).

Se in Out the way si parla di discriminazione verso la “seconda generazione” come lo farebbe una PJ Harvey non ancora stregata dall’alta sartoria, uno dei veri apici dell’album arriva con la successiva Yes Man. In questa sorta di “Prayers for Rain” dei The Cure (ma con la volontà di andare anche al di là del proprio cortile) viene fuori l’anima più intensa di questo lavoro, la vena romantica, sanguigna, che lo eleva a qualcosa di più che un’invettiva in musica (What’s a worthy man? he gives the best he can he doesn’t bank his favours for rainy days).

La voce di Nadine Shah vibra con grazia sopraffina, mai sopra le righe (nessuna ricerca di seduzione perché già naturalmente ammaliante) a cavallo tra Sarah Vaughan e David Bowie (lo so… paragone impegnativo, ma ascoltate “Evil” oppure “Relief”…).

Ordinary concede una pausa dalla cupezza sonora con una cassa martellante e un gioco di sintetizzatori che aprono un brano quasi solare nella sua chirurgica disamina del concetto di ordinario, ma si ritorna con la seguente Relief immediatamente ad armonie diagonali e a tratti sinistre, che fanno da cornice al grigio e frustrante ritratto dell’uomo comune (And the computer screen is poking fun at me you call me crazy to take it so seriously) in quello che è forse il brano più intenso dell’album.

Dopo la potente, ma un po’ sbrigativa, Mother Fighter, il disco si chiude con Jolly Sailor, dove per la prima volta fa capolino il pianoforte, che fa da obliquo appoggio ad un sintetizzatore  che ci solleva per tutta la canzone su un tappeto ovattato, fino all’arrivo della voce quasi black di Nadine Shah che, riportandoci tutti all’amara mediocrità quotidiana in una tenue ballata quasi kraut-rock, ci regala un crepuscolare crudo acquarello (“Purse your lips to taste, not one drop wasted never wasted….damn I’m wasted, happy wasted”)…

Che si chiami canzone di protesta, rock politico o musica di impegno, quello che colpisce è la veracità, una spinta viscerale e genuina all’indignazione, che, riversata in musica, dà vita ad un album che emoziona, scuote e sfama anche l’orecchio raffinato.

Un fascino demodé in un oceano di ostentato disimpegno, quasi una Riot Girl con la passione del Jazz, una Siouxsie Sioux che si è tolta il trucco per andare in manifestazione.

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