Missili e parole: la crisi USA – Corea del Nord e lo spettro del conflitto armato


19 settembre, dichiarazione di Donald Trump durante il suo primo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: “Se la Corea del Nord continuerà a provocarci, non avremo altra scelta che distruggerla”.
Frase che segue di poche ore il botta e risposta a distanza tra lo stesso presidente USA e il dittatore coreano Kim Jong-un, che si erano rispettivamente apostrofati come “pazzo” e “folle americano rimbambito”.

24 settembre, tweet di Trump: “Appena ascoltato il Ministro degli Esteri della Nord Corea parlare all’ONU. Se farà eco ai pensieri del Little Rocket Man (Kim), non saranno in giro ancora per molto”.
25 settembre, Ministro degli Esteri nord coreano, Ri Yong Ho: “Questa è chiaramente una dichiarazione di guerra e abbiamo tutto il diritto di prendere delle contromisure”.

Sono questi gli ultimi atti di quella che è stata definita la guerra delle parole scoppiata tra due leader mondiali, la cui reputazione si basa su un unico principio: parlare duramente e agire allo stesso modo.
La causa della tensione crescente tra Stati Uniti e Corea del Nord è data in primis da un’accelerazione nella produzione di armamenti nucleari da parte del paese asiatico.

Solo durante la scorsa estate il regime nordcoreano ha effettuato quattro test missilistici e un test nucleare (3 settembre), che ha fatto registrare un’esplosione significativamente più potente delle bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki durante la Seconda Guerra Mondiale e ha provocato un terremoto di magnitudo 6.3.

L’obiettivo di Kim è chiaro: fabbricare una bomba nucleare miniaturizzata da agganciare a un missile con gittata tale da essere in grado di raggiungere il territorio statunitense.

A fine settembre, dopo la registrazione di nuove scosse nell’area della penisola coreana che hanno fatto temere nuovi test nucleari, gli Stati Uniti hanno iniziato a prendere le prime contromisure: alcuni bombardieri supersonici americani hanno iniziato a pattugliare lo spazio aereo internazionale a est della Corea del Nord.
Un messaggio chiaro a cui hanno fatto eco le parole di un portavoce del Pentagono: “Se il regime di Kim Jong-un non mette fine alle provocazioni, faremo in modo di fornire al presidente Trump tutti i mezzi possibili per affrontare la questione”.

Dopo il già citato tweet di Donald Trump lo scorso 24 settembre, è toccato all’establishment statunitense smorzare i toni al fine di non trasformare una guerra di parole in un conflitto armato vero e proprio: la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, e il Segretario di Stato statunitense, Rex Tillerson, hanno ribadito fermamente la volontà di risolvere la crisi attraverso vie diplomatiche e tramite l’adozione di sanzioni economiche.

In quest’ultima direzione si sta già muovendo l’ONU, adottando provvedimenti sempre più duri al fine di fermare l’escalation nucleare del regime di Kim. A questi ha già aderito la Cina che dal 1° ottobre ha limitato l’esportazione di petrolio e bloccato l’esportazione di gas naturale e l’importazione di prodotti tessili provenienti dalla Corea del Nord.

Parallelamente gli Stati Uniti hanno annunciato ulteriori sanzioni per limitare l’accesso di 8 banche nordcoreane al sistema bancario internazionale e portare banche di paesi terzi a non intrattenere rapporti d’affari con la Nord Corea, pena la revoca dell’accesso al sistema finanziario statunitense.

Malgrado dunque i toni particolarmente accesi adottati dal presidente USA e il dittatore nordcoreano, è chiaro e tangibile l’intento della comunità internazionale di risolvere la questione adottando soluzioni che non contemplino l’uso della forza, al fine di evitare un conflitto che si rivelerebbe il più catastrofico tra quelli a cui ha assistito il continente asiatico sino ad ora.

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