Il velo, i media e il dialogo che non c’è


La notizia è di pochi giorni fa: a Bologna una ragazza di origini bengalesi viene sottratta alla custodia dei genitori, che l’avrebbero rasata a zero perché rifiutava di portare il velo. Immediato pandemonio giornalistico e social, ennesimo colpo al dialogo già difficile su questi temi.

Partita da quotidiani e siti locali, la vicenda è arrivata ben presto alle cronache nazionali, portandosi dietro la consueta sequela di commenti, dell’uno e dell’altro colore politico.

Se è lecito aspettarsi una strumentalizzazione da chi su questi episodi costruisce campagne elettorali e carriere politiche, stupisce invece la superficialità dei tanti, anche tra i meglio intenzionati, che si affrettano a liquidare la faccenda esprimendo sommari giudizi di condanna.

Il punto è che in un fatto come questo c’è dentro tutto: le relazioni familiari, le scelte o le imposizioni religiose, le libertà civili, la condizione femminile e quella giovanile.

Allora come si spiega questa leggerezza? Come si può non approfondire una vicenda del genere, allargando il discorso a un quadro più ampio? Proviamoci.

Il primo dato che salta all’occhio è il modo con il quale i mezzi d’informazione affrontano la vicenda. Deciso, senza esitazioni, quasi fossimo già di fronte a una sentenza di condanna. Eppure il fatto è ancora tutto da chiarire: lo stesso presidente del tribunale, non a caso, invita a evitare strumentalizzazioni.

E allora come mai questo sensazionalismo? Per quella tendenza alla semplificazione che fa parte del giornalismo? Senz’altro. Per acchiappare qualche clic in più? Anche.

Aspetti che spiegano la diffidenza con cui tanti operatori del sociale guardano ai mezzi di comunicazione, consapevoli di quanto sia delicato il loro lavoro e dietro l’angolo il rischio di spettacolarizzare certi casi quando finiscono in pasto ai media.

Ma non è tutto qui. Perché è il tono che colpisce, anche negli articoli più asciutti: l’informazione generalista tende a raccontare queste notizie con l’enfasi della verità in tasca, con la presunzione di chi è dalla parte della ragione, senza esprimere il minimo dubbio sull’accaduto.

Quasi tutte le analisi presentate sui mezzi di comunicazione mainstream partono da una base di diffidenza che nasce dalla non conoscenza, o detto più brutalmente dall’ignoranza: quanto si conosce della realtà che si racconta? Spesso molto poco.

Così nel migliore dei casi si finisce per replicare gli stessi stereotipi di cui si è vittime, perché i media sono parte della società e hanno i suoi stessi limiti.

Per non parlare di chi fa leva consapevolmente su quegli stereotipi per alimentare il conflitto sociale. Quanti quotidiani, anche locali e non da oggi, basano la loro linea editoriale sull’intolleranza strisciante o urlata nei confronti di chi è diverso, è “altro” da “noi”?

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Il problema, però, non è limitato ai mass media o alla classe politica, perché noi quei giornali li leggiamo, quei partiti li votiamo. E se lo facciamo, è perché almeno in parte ci rappresentano.

Rappresentano un punto di riferimento, uno specchio per la nostra ignoranza, alimentano la nostra pigrizia o incapacità di approfondire, confermano la nostra visione del mondo e delle cose.

Niente di più facile, del resto, nel momento in cui un manipolo di fanatici cerca di convicerci dell’equazione Islam uguale terrorismo.

Come usciamo allora da questo circolo vizioso, da questa situazione che si auto-alimenta dove mancano le occasioni di conoscenza e dialogo?

Prima di tutto allargando la riflessione, analizzando tematiche complesse come la condizione femminile all’interno della cultura islamica con un sguardo più approfondito e consapevole.

Come fa Beatrice Toniolo in questo contributo sulla foto della donna velata sul Westminster Bridge dopo l’attentato di Londra.

Oppure provando ad ascoltare dalla voce delle protagoniste cosa significa essere una giovane donna musulmana oggi in Italia.

Una possibilità decisamente alla portata di tutti con il fumetto Sotto il velo, della graphic journalist italo-tunisina classe 1991 Takoua Ben Mohamed: un concentrato di racconti quotidiani talmente divertenti da capovolgere con estrema naturalezza qualunque stereotipo.

Continuando a seguire il sentiero della cultura come strumento d’interpretazione della realtà, di spunti interessanti se ne trovano in quantità.

Come lo spettacolo teatrale L’ora di ricevimento, di Stefano Massini con uno strepitoso Fabrizio Bentivoglio per la regia di Michele Placido. Uno sguardo dall’interno alla banlieue di Les Izards (Tolosa) attraverso il primo luogo di socializzazione e confronto per tutti noi: la scuola.

Questi, come detto, sono solo spunti. Ma che partono tutti dalla stessa idea: che la comprensione, la conoscenza e il dialogo possano servire a fare passi avanti.

A capire che bisogna lasciar lavorare i magistrati e non si può credere ai processi mediatici dei giornali, soprattutto su temi così delicati.

A capire che il clima di odio alimentato in questo modo ha effetti drammatici sulle menti più fragili, ma anche che se vogliamo possiamo reagire manifestando la nostra solidarietà.

A capire che il dialogo e la conoscenza sono ancora più importanti nell’epoca della velocità. E che il punto non è avere ragione o torto, ma comprendere le differenze per poterle rispettare.

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