Olimpiadi: da Olimpia a Rio in 2792 anni


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Le Olimpiadi sono una metafora meravigliosa della cooperazione mondiale: è il tipo di competizione internazionale che è sana e in buona salute; un gioco tra i paesi che rappresenta il meglio di ognuno di noi.- John Williams

In un tripudio di colori e voci, Rio accoglie oggi la cerimonia di apertura della XXXI Olimpiade, guadagnandosi un posto nella storia, come prima città sudamericana scelta per i Giochi olimpici estivi.

Ma se pensiamo alle Olimpiadi ben pochi di noi ne collocheranno il debutto nel 1896, perché per quanto questo sia l’anno  di nascita dei giochi olimpici nella loro forma attuale, è verità ben nota che essi affondino le proprie radici in un passato più remoto. Il nome stesso dei Giochi è infatti intriso di grecità e ci catapulta in un’Ellade che ancora non conosce neppure lo splendore della classicità. Se si desse ascolto alla tradizione, bisognerebbe tornare al 776 a.C. nella città di Olimpia per assistere alla prima edizione dei giochi più famosi del mondo antico.

Ma perché le Olimpiadi godevano di tanto successo presso i Greci? E più ancora di questo, per quale motivo, dopo più di mille anni, abbiamo avvertito il bisogno di liberare i giochi dalla polvere e donar loro nuova vita, non più solo panellenica, ma addirittura mondiale?

Il valore storico-culturale delle Olimpiadi va ben oltre l’evento sportivo – e con questo non si intende certo sminuire l’importanza della competizione agonistica, quanto mostrare l’eccezionale potere che i giochi esercitavano sulla società. I greci, incostanti, divisi, perennemente in lotta gli uni contro gli altri, avvertivano la presenza di un vincolo sacro e intoccabile, che donava loro quella coscienza nazionale altrimenti sconosciuta. Ogni quattro anni, nella cornice dei giochi di Olimpia i Greci divenivano realmente Greci e cessavano di essere solo Ateniesi, Tebani, Spartani…

Ogni contesa si assopiva cosicché tutti potessero prendere parte ai giochi e il sangue della battaglia potesse essere asciugato dalle acclamazioni dei vincitori. Campioni, eroi, quasi dèi.

Come l’aria è il migliore degli elementi – scriveva Plutarco- come l’oro è il più prezioso dei tesori, come la luce del sole sorpassa ogni altra cosa in splendore e calore, così non vi è vittoria più nobile di quella di Olimpia.

Olimpia divenne la culla dei celebri giochi innanzitutto nei racconti mitici, che si sforzavano di spiegare ogni elemento del mondo ellenico e ricondurlo a un passato immaginifico. Si dice che in principio fu Saturno a scegliere la città come campo di gara e dopo di lui Apollo, ma la leggenda 4bcbb89b2c597b97ffe019979335a675che più di ogni altra racchiude lo spirito delle Olimpiadi è quella di Pélope. Si narra infatti che questi, deciso a sposare Ippodamia, avesse sfidato il padre di lei, Enomao, nella corsa sul carro; che fosse stato grazie alla corruzione dell’auriga del re Mirtilo o ai destrieri alati donatigli da Posidone, Pélope conquistò la vittoria e con essa la mano della fanciulla.

Pur se nati tra l’inganno e l’arguzia, i giochi olimpici rappresentarono per secoli un momento di unione e coesione, in un mondo dilaniato da contrasti politici ed economici.

Anche se di differente natura, la discordia e la violenza diffusa non sono vocaboli estranei al nostro tempo e oggi più che mai dovremmo augurarci che i paesi evoluti e civili che popoliamo leggessero i giochi olimpici come i loro antenati ellenici, ponendo un freno ai conflitti che riempiono i notiziari e invadono le coscienze. Coscienze… forse se davvero si potesse parlare di coscienze non avremmo bisogno dei giochi per placarci.

In un anno, il 2016, che ha già seppellito troppi innocenti e ha versato troppo sangue in troppe terre; in un mondo che ha condannato troppi credenti, troppi non credenti e ha sputato sui diritti dei deboli e dei forti, dei bianchi e dei neri, delle donne e degli uomini; in una società multiforme, frenetica e spietata, che ha dimenticato cosa significa umanità e ha imparato a mutarsi ogni volta nel simulacro di ciò che le conviene essere; in un tempo che ripudia la lezione che millenni di storia hanno insegnato e che inciampa testardo negli errori e negli orrori del passato; in un oggi che troppo spesso disgusta, ma che talvolta, per fortuna, sa anche commuovere, meritiamo ancora le Olimpiadi? Le comprendiamo per ciò che rappresentano?

 

Vorrei poter rispondere, vorrei poter dire che sì, le capiamo davvero, perché se abbiamo deciso poco più di un secolo fa di strapparle alla memoria e renderle presente significa che ne condividiamo i principi ispiratori, che ricerchiamo in loro la complicità, la fratellanza, la brama di essere un tutt’uno, un meraviglioso e variopinto mosaico di idee, lacrime e cuore che sa accogliere la pace in un mondo che sembra volerla disconoscere. Ma ahimè abbandonarsi alle utopie addolcisce solo per un attimo l’amaro del reale. Accendo la tv. Da un lato i colori di Rio (o perlomeno di una sua parte. Le altre, quelle spente e tristi, quelle in cui regna la povertà di sempre e non l’euforia di oggi, quelle teniamole nascoste, come la cultura dei media impone), dall’altro le lacrime di chi vede il proprio domani sotto un cumulo di macerie; da un lato gli inni nazionali e le mani sui cuori, dall’altro le nazioni e l’odio sui volti. A tratti guardo lo schermo e mi sembra di assistere a una bellissima, ma tragica pantomima. Tuttavia c’è qualcosa che sfugge alla recita, una stilla di umanità che non cede, che resiste e non soccombe. E’ quella gioia che traspare in chi sostiene i propri atleti, in chi esulta e si dispera con loro; è l’entusiasmo che fa riunire davanti allo schermo perché “questa gara la voglio proprio vedere”; è la speranza che non tutto sia perduto, che un motivo per cui le Olimpiadi sono ancora qui esista davvero e sia sintomo di quanto l’umanità non possa rinnegarsi del tutto.

Ma sì, forse alla fine una risposta l’ho trovata. Meritiamo queste Olimpiadi, le meritiamo perché sono una possibilità di ricordare chi siamo e di prendere un po’ di quei bei colori di Rio e spargerli anche dove le telecamere non possono arrivare. Perché la vita non è un palco e noi non siamo attori. Alla fine non c’è nessuno in platea ad applaudire. Non vi è neppure una platea. E per fortuna non ne abbiamo bisogno.

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