Dominic Ongwen: a giudizio l’ex bambino-soldato


È in corso davanti alla Corte Penale Internazione dell’Aja, con la fase preliminare davanti alla Pre-Trial Chamber, il processo contro Dominic Ongwen, militare ugandese accusato di crimini contro l’umanità, membro della Lord’s Resistance Army (LRA) di Joseph Kony, milizia in guerra contro il governo di Kampala.

La LRA di Joseph Kony, ad oggi ancora latitante, nasce nel 1986 come movimento armato a sostegno dell’etnia degli Acholi, popolazione dell’Uganda settentrionale, regione relegata ai margini dello sviluppo economico e sociale del paese. Le rivendicazioni di maggiore rappresentatività rivolte al governo nazionale ugandese, però, lasciano presto il posto alle manie di grandezza di Kony ed al suo folle tentativo di instaurare uno Stato teocratico basato sulla sua personale interpretazione della Bibbia e dei Dieci comandamenti. Le milizie di Kony godono del sostegno degli stati limitrofi ostili all’Uganda (in particolare, i suoi soldati trovano rifugio nel Sudan di al-Bashir) e sono libere per anni di muoversi tra Uganda, Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana.

I delitti addebitati a Dominic Ongwen sono gravissimi: dall’atto di imputazione si viene a sapere che avrebbe guidato, in qualità di comandante di brigata, gli assalti a quattro campi profughi (i campi Pajule, Odek, Lukodi, Abok) svoltisi oltre dieci anni fa, tra l’ottobre del 2003 ed il giugno del 2004. In quelle occasioni, i militari da lui guidati si sarebbero lasciati andare ad omicidi, stupri, saccheggi, rapimenti ed a trattamenti inumani e degradanti verso la popolazione civile. Nel periodo che va dal 2002 al 2005, gli viene imputato il crimine di riduzione in schiavitù di donne e bambini, le prime costrette a sposare i suoi soldati, vittime di violenze sessuali ed infinite vessazioni; i secondi rapiti per farne bambini-soldato, addestrati per partecipare direttamente alle azioni di guerriglia, depredare i villaggi, fare da sentinelle e da guardie del corpo ai vertici della LRA.

La notizia dell’inizio del processo penale nei confronti di Ongwen ha avuto, per diverse ragioni, un certo risalto nei media occidentali.

Senza dubbio, a non lasciare indifferenti è l’efferatezza dei suoi crimini, che pure non è nuova nelle guerre civili africane: sono state riportate da innumerevoli film (da The Constant Gardener a l’Ultimo Re di Scozia, passando per Blood Diamond e Hotel Rwanda) le immagini di colonne di pick-up carichi di miliziani armati di kalashnikov che assaltano villaggi inermi.

A fare notizia, ancora, è il fatto che si muovano gli organi della Corte Penale Internazionale: istituita con un Trattato Internazionale, lo Statuto di Roma del 2002, la Corte conosce e giudica esclusivamente i delitti più gravi, quali genocidi, crimini di guerra, crimini contro l’umanità; attualmente sono aperti soltanto 22 procedimenti davanti ai suoi giudici, per lo più nei confronti di imputati latitanti.

Ma ciò che rende questa storia così speciale è la vicenda personale del suo protagonista, Dominic Ongwen, che solleva alcune riflessioni sul concetto di responsabilità individuale.

Infatti Ongwen, nato nel 1975 in Uganda, è stato a sua volta un bambino-soldato: sottratto dai militari di Kony alla sua famiglia all’età di dieci anni, il giovane Dominic sopravvive ad ogni privazione e scala rapidamente i gradi della gerarchia, per diventare comandante di brigata a soli venti anni. Sono di questo periodo alcune foto diffuse sul web in cui, sguardo gelido e perso nel vuoto, porta i dreadlocks come tanti suoi coetanei delle multietniche metropoli europee e americane.

Ma nell’armata di Joseph Kony, così come si sale velocemente, altrettanto rapidamente si può cadere in disgrazia: e allora Ongwen, forse per evitare il destino capitato a Vincent Otti, fedelissimo del generale e dallo stesso ucciso, o fatto uccidere, per ragioni non del tutto chiare, nel gennaio del 2015 si consegna spontaneamente a truppe speciali U.S.A. in Repubblica Centrafricana.

A quale pena può andare incontro Dominic Ongwen? L’art. 77 dello Statuto di Roma prevede che la Corte dell’Aja possa condannare un imputato alla reclusione fino ad un massimo di trenta anni, oppure all’ergastolo “se giustificato dall’estrema gravità del crimine e dalla situazione personale del condannato”.

Il giudizio su quest’uomo, vittima che diventa spietato carnefice, è, per queste ragioni, complesso e delicato.

Da una parte stanno infatti, gravissimi e incontestabili, tutti i suoi crimini; dall’altra, resta la consapevolezza che un bambino cresciuto in mezzo a degli assassini, costretto ad obbedire agli ordini più spietati, difficilmente potrà avere appreso a comportarsi con umanità.

Ongwen è quindi solo la vittima di una storia più grande di lui,un uomo incapace di comprendere in piena coscienza i delitti di cui si macchiava? Ovviamente la risposta non è così semplice: per la storia di un ragazzo che non torna indietro dall’inferno della guerra civile ve ne sono altrettante di uomini e donne che sono riusciti a ricostruirsi una vita normale. Ad esempio Polline Akello, bambina ugandese rapita all’età di 12 anni: fuggita dalla guerra civile ha ripreso a studiare ed ora racconta la sua vicenda personale a beneficio di organizazioni non governative come “War Child”, attive nel reinserimento dei bambini-soldato. Oppure Kassim “The Dream” Ouma, che una volta scappato dalle milizie ha iniziato la carriera sportiva di pugile, fino ad aggiudicarsi nel 2005 il titolo di campione mondiale IBF dei pesi medio-leggeri.

In conclusione, alla Corte spetta il difficile compito di valutare la vicenda umana di Dominic Ongwen (a cui non è mai stato insegnato a rispettare la vita umana e che, anzi, è stato stimolato fin dalla tenera età a scatenare i suoi istinti più brutali) secondo il principio di colpevolezza, che presuppone che l’imputato abbia imparato una serie di precetti giuridici e morali e abbia deciso volontariamente di violarli.

Un’indagine che, per essere seria ed obiettiva, non potrà fare a meno, oltre che delle testimonianze delle vittime, anche di quelle dei reduci della guerra civile, per valutare se le pressioni psicologiche e fisiche cui sono stati sottoposti i soldati di Kony possano avere annichilito la loro capacità di distinguere il bene dal male; allo stesso modo in cui il giornalista Jean Hatzfeld nello sconvolgente libro-reportage “A colpi di machete” dedicato allo sterminio dei Tutsi in Ruanda, intervistò alcuni tra gli Hutu autori dei massacri del 1994 per cercare di comprendere come si sia potuti arrivare ad una simile indifferenza di fronte al dolore altrui.

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