Il ponte di Messina verso Rio


Luogo: Italia. Tempo: primavera del 2006. Contesto: piena campagna elettorale. Silvio Berlusconi, premier uscente, per confermarsi alla guida del governo propone una serie di investimenti nelle infrastrutture, che ritiene necessarie per modernizzare il paese: sono le cosiddette “Grandi Opere”, che finiranno per non vedere mai la luce. Tra queste, il famoso (famigerato?) Ponte di Messina.

Dieci anni dopo, cambiate l’ordine dei fattori e il risultato… è completamente diverso. Perché da metà gennaio è ufficiale che a guidare l’Italia, anche se si tratta solamente della nazionale di basket, è stato richiamato Ettore Messina, che avrà il compito di costruire il ponte che riporti gli azzurri ai Giochi Olimpici dopo dodici anni di digiuno. Quando nel 2004 alla fine fu argento, per capirci.

Pianigiani… di miglioramento

Sul perché le strade tra l’ ex c.t. Simone Pianigiani e la Federazione si siano separate le ipotesi sono state tante, dall’insoddisfazione per il quinto posto ottenuto a Euro 2015di Petrucci, ribadita peraltro tra le in sede di presentazione del successore quando lo stesso presidente ha affermato che lui e il coach senese hanno “caratteri diversi”, fino alle implicazioni nell’affaire Mens Sana, su cui ci siamo già soffermati nella puntata di Gennaio di “Tiri Liberi” e a cui applicheremo un “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa” trattandosi di una questione spinosa, antipatica e per giunta ancora in divenire.

Magari è stata un insieme delle due, oppure semplicemente Petrucci voleva l’allenatore migliore possibile per quella che lui stesso ha definito, la scorsa estate, “l’Italia più forte della storia”. Perché, oh, ragazzi (e qui Maurizio Crozza in versione Pierluigi Bersani rende eccome): siam mica qui a far canestro con le bucce d’arancia, Messina è il coach migliore che si potesse sperare di ingaggiare (a gratis, almeno per il pre-Olimpico, va precisato). Vogliamo ricapitolarne i passaggi salienti della carriera per i più distratti? Benessum, andiamo.

Ecce homo… europeus

Messina mostra le sue doti in panchina già da giovanissimo, la Virtus Bologna se lo accaparra e dopo anni di tornei giovanili gli affida la prima squadra. Al primo colpo, fa centro: conquista una Coppa Italia e una Coppa Korac contro il Real Madrid, allenato da quel George Karl che poi avrà una successiva florida carriera ancora attiva nella NBA, ma soprattutto conquista Micheal Ray Richardson, favoloso ma bizzoso giocatore che nella Lega ci aveva passato anni, killer del precedente allenatore Bob Hill. Dopo quattro stagioni in Virtus viene chiamato a guidare la nazionale, nel ’92, a soli trentatre anni: vincerà un oro ai Giochi del Mediterraneo nel ’95 e un argento agli Europei spagnoli del ’97, quando alla sua squadra renderanno vita dura un arbitraggio rivedibile e una Yugoslavia che chi scrive considera la nazionale più forte della storia togliendo tutte quelle statunitensi. Così, en passant.

Dopo la Nazionale, Bologna lo riabbraccia, e lì saranno trofei di tutti tipi prima, con due Coppe dei Campioni alzate al cielo in cinque annate e altrettante finali, e lacrime dopo, con l’addio dopo essere stato pubblicamente umiliato dal suo presidente, lo stesso la cui gestione porta al fallimento, nell’estate 2003, uno dei patrimoni dell’italica pallacanestro. Ma lì Messina non c’è già più, ha già accettato l’offerta di Treviso dove raccoglierà uno scudetto, tre Coppe Italia di fila e una finale persa contro il Barcellona di Jasikevicius, Bodiroga e Fucka. E poi… beh, poi dal 2005/2006 (stessa stagione delle Grandi Opere berlusconiane: che la cabala ci prenda per il naso?) è l’inizio dell’Ettore migrante e vessillifero del basket tricolore, che nel frattempo ha iniziato quel lento declino da cui ancora completamente non è uscito: alla guida del CSKA Mosca vince l’Eurolega a Praga contro il Maccabi di Pini Gershon, si ripeterà nel 2008 contro la stessa squadra, ma negli anni pari si infrangerà in finale contro il Panathinaikos allenato da quello che è il suo personale professor Moriarty, ovvero Zelimir Obradovic (che dirigeva anche la Yugoslavia del ’97: ora basta, cabala, abbiamo capito che dietro c’è il tuo zampino). Dal 2009, per un anno e mezzo, sarà Real Madrid, fino a quando, dopo una sconfitta casalinga tutto sommato indolore contro Siena, Messina pianta baracca e burattini perché lui in un ambiente così soffocante, esagerato e viperesco come quello madrilen proprio non riesce a lavorarci.

E così, dal 1989 siamo arrivati ai giorni nostri, e “nostri” va interpretato in più sensi: proprio nei giorni in cui nasceva “Tiri liberi”, infatti, Messina esordiva sui parquet della NBA nel ruolo di assistant coach nientemeno che con i Los Angeles Lakers, voluto dal suo amico Mike Brown, a sua volta voluto dal figlio del proprietario della franchigia californiana, che si era ben guardato dall’interpellare Kobe Bryant nei riguardi della scelta della guida tecnica del dopo- Phil Jackson. Da questa esperienza, seppur di un anno soltanto, nascerà un libro (“Basket, uomini e altri pianeti”) che chiunque si definisca appassionato più che occasionale di questo sport dovrebbe leggere un paio di volte. Almeno. Poi ci sarà il ritorno a Mosca con due semifinali perse di fila, poi il nuovo viaggio in NBA, direzione Spurs, voluto da Gregg Popovich (all’epoca tra l’altro fresco vincitore del titolo), e con la speranza di ogni appassionato che sia proprio il coach che ha adottato Bologna e che da Bologna è stato adottato il primo non- statunitense a sedersi su una panchina della Lega. E il motto “Where amazing happens” potrebbe assumere un particolare significato esclusivo, per noi italiani.

Viva l’Italia, l’Italia che non muore

Ti ronza in testa una domanda, caro lettore: “Tutto bene, tutto bello… Ma che Italia sarà quella che a Torino si giocherà l’accesso alle Olimpiadi?”. Questione interessante, vediamo di ipotizzarlo.

Sicuri ovviamente non ce ne sono, e non stiamo parlando di quisquilie e pinzillacchere del tipo “Tutti sono in discussione, nessuno ha il posto fisso”, ma di semplici infortuni della prima o dell’ultima ora. Al netto di questi, facendo falsamente finta che non esistano, possiamo dare per assodata la presenza degli “americani” Gallinari, Belinelli e Bargnani, con gli ultimi due che ritrovano un maestro di gioventù che ha contribuito a forgiarli, e quella degli “europei” Hackett e Datome, quest’ultimo peraltro al soldo, in quel del Fenerbahçe, della nemesi Obradovic (ma sempre qui stai?). Non è sempre stato un titolarissimo di Pianigiani, ma vista la stagione solida al Bamberg e i numerosi riconoscimenti personali ottenuti in Eurolega, potremmo persino ipotizzare che anche Nicolò Melli alla fine sarà sicuro di far parte dei dodici (no, non gli apostoli), così come Ale Gentile che resta il capitano dell’unica squadra andata vicina alla conquista delle Top Sixteen di Eurolega.

Il resto è un discreto rebus, ma tutto sommato interpretabile: possibile che, per ottenere un amalgama in maniera più rapida Messina decida di inserire le sue star nell’impianto a trazione italiana di Reggio Emilia: De Nicolao e Stefano Gentile corrono per un posto da regista classico sapendo che entrambi potrebbero restare fuori, Della Valle è un outsider che ha faccia tosta, mani morbide e capacità di penetrare o tirare a seconda delle circostanze, Polonara è un “4” l’atletismo e l’elevazione di un “3”, Aradori è una guardia che può segnare da fuori o portare spalle a canestro il suo marcatore con la sua taglia fisica taurina, Cinciarini ora è a Milano ma i compagni li conosce benissimo. Sull’ordito reggiano possono inserirsi altri “lombardi” come il duo della Vanoli Vitali&Cusin, che fanno ormai rima con pick&roll, della promessa cremonese Fabio Mian, vera macchina dall’arco quando è in scia con movimenti e rilascio sempre inappuntabili, o dal canturino Abass, che ricorda il Belinelli prima maniera, quello che schiacciava o sparava da tre e poi dopo, nel caso, chiedeva spiegazioni (o gliene venivano chieste).

Dal cesto dei “Lamma-e-Rombaldoni”, ovvero gli outsider che si lasciano dietro la concorrenza brillando per abnegazione, bisogna tenere presidiate due pattuglie, entrambe bianconere: quella trentina composta da Poeta, Pascolo e Baldi Rossi, e quella bolognese che contra tra le sue fila Michele Vitali, Fontecchio e Mazzola, mentre un altro sempre sottovalutato è un altro targato Vanoli,  Biligha. Magro e Cervi sono i due centri di riserva designati, sempre che Messina non decida di portarsi dietro il solo Cusin.

È vero, la scelta non è ampia, ed è forse vero che il movimento produce poco rispetto a quello che potrebbe e dovrebbe, ma non il caso comunque di fasciarsi la testa. Per affrontare il preolimpico, ancorché casalingo, in ogni caso ne serviranno dodici e, banalità per banalità, l’obiettivo sarà segnare un punto in più di tutti gli avversari, che giocheranno con il coltello tra i denti. Messina questo lo sa, ed è il motivo per cui ha puntato il dito non tanto contro il fatto che gli italiani non giochino ma piuttosto contro quelle regole che rendono d’obbligo di averne sempre sei a referto: il ct, uomo razionale e di buon senso, ha infatti sottolineato come un regolamento di questo tipo diventi controproducente per l’intero movimento, con la competitività che si riduce a causa dell’eccessivo protezionismo, il quale porta a sua volta a una riduzione della “fame” agonistica. Al momento del suo insediamento (qui trovate un video con parte della conferenza stampa e qui il report sintetico) ha promesso non a caso “sangue, sudore e lacrime”, proprio perché sa che Croazia e Tunisia nel primo girone e (salvo colpi di scena) Grecia e Messico nella fase a eliminazione diretta saranno tutte agguerrite, e l’Italia dovrà non morire, come cantava De Gregori.

E allora, forza e coraggio: da Messina verso Rio, la strada è appena cominciata. Stavolta, le Grandi Opere dovremo farle sul serio. Sul parquet.

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