Se il Fungo diventa Cyberpunk: Cinema e Videogames


È il 1993. Sempre più televisioni vengono dotate di quelle scatolette che, superato un momento di crisi interna, saranno necessariamente il nuovo paradigma di intrattenimento domestico, ovvero le console. Sony ancora non ha commercializzato la propria Playstation, uscita nel 1994, e Nintendo domina il mercato. È sempre il 1993, e la computer grafica al cinema sta facendo le sue prime vere apparizioni fra metallo fluido e dinosauri. In questi anni la sci-fi deve necessariamente confrontarsi con un’eredità del decennio precedente che si è proposta se non come movimento culturale, sicuramente come sentire diffuso. Parliamo chiaramente del cyberpunk. Se proviamo allora a ricondurre a questo scenario la volontà di portare per la prima volta sullo schermo un soggetto direttamente tratto da un videogame ci appare quasi chiaro come sia stato possibile proporre al pubblico un film come “Super Mario Bros, e farlo passando da questo:

Articolo di Luca Morellini: Cinema e Videogiochi: quando il Fungo diventa Cyberpunk

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Articolo di Luca Morellini: Cinema e Videogiochi: quando il Fungo diventa Cyberpunk

Il risultato è un flop, ricordato da molti, detestato da altrettanti, sicuramente portatore di un tassello importante di quelle fumose e misteriose dinamiche che regolano il rapporto tra cinema e videogiochi di successo,  questi ultimi capaci di vendere milioni di copie ed essere amati universalmente o perlomeno conosciuti anche fuori dal contesto di appartenenza, e di farlo producendo immediatamente un altrettanto sicuro film di poco o scarso successo, detestato tanto dalla comunità di videogiocatori quanto dagli spettatori cinematografici. Super Mario è veramente un caso paradigmatico. In quanto primo film che vede direttamente i personaggi, le situazioni, i luoghi, in poche parole l’intera narrazione tratta da un videogame. I precedenti ci sono, basta pensare al famoso “Tron”, ma in generale si trattava di operazioni che costruivano giochi ad-hoc o che ne citavano altri senza una tale diretta dipendenza da un soggetto preesistente (chi ha detto “The Last Starfighter?). In altre parole, “Super Mario Bros è il primo film che tratta il videogame come materiale di adattamento, al pari di come una sceneggiatura cinematografica può fare con un qualsiasi romanzo. Videogame uguale romanzo per il cinema? Suona male. Vediamo di capire meglio. La strada è quella che porta da “Tron”, a “Super Mario Bros”, passando attraverso i vari “Resident Evil”, fino all’annuncio del film su “Assassin’s Creed”. E proprio da quest’ultimo vogliamo partire, riportando alcune dichiarazioni da comunicati stampa degli ultimi mesi.

In un’intervista con Premiere Magazine (via Film), il CEO della Ubisoft Motion Pictures, Jean-Julien Baronnet, si è espresso sull’adattamento con queste parole:

Locandina di Assassin's Creed - Articolo di Luca Morellini: Cinema e Videogiochi: quando il Fungo diventa Cyberpunk«Michael (Fassbender n.d.r.) ha accettato molto velocemente. Era l’unico attore che noi ritenevamo ovvio per il ruolo, quindi abbiamo cominciato coinvolgendo lui, cosa che non è proprio tipica. Ancora più atipico è stato il fatto che abbia accettato senza avere nulla in mano. Non c’era uno script, nessuna major coinvolta, niente. Gli abbiamo detto che avremmo costruito il progetto insieme, che avremmo puntato allo stile di film come Batman Begins e Blade Runner. Gli abbiamo garantito che avrebbe potuto lavorare con gli sceneggiatori, che lo avremmo coinvolto per tutte le questioni chiave». E, ancora: «La nostra grande scommessa è lavorare con tre diversi tipi di pubblico: i fan dei nostri giochi, che sono circa 95 milioni; i fan del cinema mainstream che stanno per andare a vedere Star Wars e Spider-Man e, in parallelo, stiamo mirando anche alle persone che non avrebbero mai pensato di andare a vedere un film di Assassin’s Creed e le persone che amano i film indipendenti.».

Dunque, abbiamo un attore generalmente ben visto dal vasto pubblico e ben quotato; abbiamo poi una produzione che si dà principi di indipendenza (poco importa se reale o meno) e abbiamo i riferimenti a un cinema mainstream che è, per definizione, riuscito a estendere e massimizzare il successo dei suoi soggetti. Nonostante alcune dichiarazione a prima vista forse un po’ ingenue come il riferimento a “Batman” e “Blade Runner” quasi fossero la stessa cosa, emerge la volontà di fare un “film d’arte”, etichetta utile allo scopo di nobilitare il sottogenere “tratto da videogame”. Il “film d’arte” infatti era la modalità con cui durante una certa fase del cinema muto, quando il mezzo non era ancora considerato al pari di altre forme espressive, si intendeva nobilitarlo attingendo da soggetti letterari riconosciuti come “alti”. In questo caso, fin dal primo capitolo, il videogame originale fa questo, proponendo una commistione di generi che vedono sempre gli episodi ambientate in un contesto storico in grado di essere considerato finanche didattico. D’altro canto, in questo processo dobbiamo tenere conto della saggia (ma ormai obbligatoria) filosofia Assassins-Creed-1-e1451229761778dell’adattamento “post-Matrix” che la produzione sta adottando. A detta loro infatti, non senza un certo disappunto da parte dei fan, Fassbender (che ha anche prodotto la pellicola) non vestirà i panni di nessuno dei numerosi protagonisti ufficiali dei videogiochi Ubisoft, ma quelli di un personaggio di nome Callum Lynch creato ad hoc per il grande schermo. Definiamo qui “post-Matrix”: la consapevolezza di creare un universo narrativo organico, dove il film sia un tassello al pari delle altre narrazioni videoludiche, animate, fumettistiche e cartacee preesistenti, andando ad arricchire la visione complessiva senza sovrapporsi o escludere alcunché. Cosa ormai risaputa e strategia diffusa, ma da non dare per scontata se ci paragoniamo alla grande maggioranza delle trasposizioni anche più recenti (pensiamo a “Hitman”, “Max Payne”, “Doom” e ancora “Resident Evil). Ma se, per come si sta configurando questa produzione, l’atteggiamento è di alta consapevolezza del valore del proprio prodotto e del brand di “Assassin’s Creed”, e se le risorse saranno quelle che ci si aspetta da tali produzioni, sarebbe giusto chiedersi il perché dei continui riferimenti al “film d’arte” come legittimazione necessaria:  «Il nostro obiettivo è di tenere sotto controllo tutto lo sviluppo, quindi finanziarlo al 100%. Gli sceneggiatori che scegliamo non devono essere necessariamente delle star, ma persone che hanno capito l’universo. E se non c’è uno script di un certo livello, il film non farà presa». In realtà questo aspetto mette in evidenza quanto sia ancora importante, almeno nel discorso del marketing, l’atteggiamento di una traduzione “a monte”. Indipendentemente da come sarà il film che vedremo in sala, rapportarsi continuamente al valore del prodotto di origine (in questo caso il videogame) significa, metaforicamente, non tradire nel tradurre. Voler mantenere l’aura di qualità che il videogame originale ha saputo ricavarsi nel suo contesto di origine. Tradire mario-poster-e1392253110766era invece esattamente ciò che accadeva con “Super Mario Bros”. D’altronde il tradimento di allora era attenuato dalla necessità di portare su schermo un videogame composto da mondi inverosimili di pochi bit, abitati da funghi, tartarughe e draghi e in cui la quest principale era salvare la principessa evitando gli ostacoli.  Ma dove quest’ultimo trattava veramente il suo oggetto come un romanzo da cui poter liberamente appropriarsi di figure e nomi, traducendoli a seconda dei bisogni del cinema di quegli anni, preoccupandosi solo di come ottenere con i propri mezzi una certa resa plastica (che in definitiva tradiva totalmente le aspettative), l’assottigliamento delle barriere fra i media permette oggi di uscire da questa logica, mettendo il film alla pari del videogame. Alla pari non in termini di intercambiabilità, sia chiaro, ma di capacità traduttiva: reciproca interdipendenza narrativa senza trascurare le differenze fra i linguaggi.

Tuttavia, per comunicare il valore dell’operazione, sembrerebbe necessario continuare nella tradizione del primo atteggiamento, con i suoi criteri di fedeltà e accuratezza. La traduzione fedele è quindi comunicata attraverso l’atteggiamento che definiamo “a monte”. Poco importa se, in verità, in questo modo si riporta lo spettatore al rischio del “paragone”, al rischio del “era meglio il libro”, annullando la conquista di una lettura integrata. Le dichiarazioni rilasciate dai creatori di “Assassin’s Creed” sembrano testimoniare di aver compreso e intrapreso un’altra direzione, seppur non rinunciando a un’appagante aura di qualità che si rifà un po’ confusamente al blockbuster d’autore. Cosa a cui d’altronde il film aspira. Se il giudizio sulla dinamica fra cinema e videogiochi dovesse invece ancora essere ancorata ai termini precedenti, la cosa migliore che può capitare è, possiamo dirlo, un prodotto che manifesti praticità: contaminare il più possibile il film nel tentativo di riportare (nel linguaggio del mezzo cinematografico) le strutture del videogame. Gli esempi ci sono, ma il più delle volte è necessario uscire dal regime dell’adattamento in blockbuster e osservare prodotti di nicchia (pensiamo a “Scott Pilgrim VS the world”). E se due decenni fa il massimo a cui si poteva aspirare era capire che da un picchiaduro come “Mortal Kombat” l’unico film possibile era… quel “Mortal Kombat“, possiamo dire che al momento l’aspirazione per “Assassin’s Creed” non è sicuramente solo quella di ottenere un buon dramma storico o una fantascienza “dura e pura”. Chiunque abbia mai giocato a questo titolo sa che i due generi che lo compongono danno un risultato che è superiore alla somma delle due parti. Non sarà un caso che il regista sia Justin Kurzel, appena uscito nelle sale con “Macbeth”, sempre con Fassbender, in cui di fatto le fedelissime battute del classico shakespeariano si fondono con una messinscena che ricerca una sintesi fra realismo ed espressività, forse non del tutto convincente, ma intrigante e sofisticata. Quello che si dovrà valutare sarà allora, alla luce delle dichiarazioni produttive ma soprattutto sulle competenze di lettura acquisita dal pubblico, anzi, dai pubblici, quello cinematografico e quello videoludico, se bowsertali ambizioni sono state mantenute al di fuori da qualsiasi sbandierato criterio di qualità o fedeltà. Dopotutto, è il giudizio sulla traduzione stessa che ci permette di guardare, increduli o divertiti, un idraulico di origini italiane lottare con rettili preistorici evoluti in città cyberpunk. Forse questa volta l’atteggiamento richiesto sarà, con un doppio paradosso, quello più tradizionale del lasciarsi trasportare dalla storia.




 

1 comment

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  1. Wiccio

    Forse è anche grazie a flop quale il Mario Bros citato nell’articolo – che il sottoscritto non ha visionato -, e senza tralasciare i traguardi tecnologici raggiunti con gli effetti speciali e la computer grafica, se le produzioni si sono spinte verso traduzioni più studiate, uniformi e omogenee, che riescano a sfruttare il “post-Matrix” senza causare nello spettatore ciò che è peggio: confusione e paradossi. E d’altronde, sebbene le prime trasposizioni cinematografiche che attingevano da fonti extra-cinematografiche venivano seguite da meno pubblico proprio per l’impegno che tale correlazione implicava, oggi giorno è proprio questo che cerca il fruitore: l’opportunità di ampliare su differenti media un universo approcciato altrove. Certo, il tutto senza esagerare. Per esempio, io mi sto ancora chiedendo se il film “8 Mile” con Eminem sia la trasposizione cinematografica del videogioco “PaRappa the Rapper”…

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