Kobe Bryant, ferocemente il migliore


Kobe Bryant. Basterebbero queste due parole per rendere denso di significato un articolo. Anzi, forse seguendo i principi dell’ermetismo si potrebbe persino affermare che “Kobe” e “Bryant” potrebbero già di per sé comporre un articolo, per la storia, l’intensità delle emozioni che il Black Mamba ha suscitato in ogni appassionato di pallacanestro. Che si trattasse  di addetti ai lavori con fior di esperienza o di semplici supporter occasionali.

Age of Kobe 

Non possiamo rendere un giusto tributo a Kobe Bryant senza partire da quella che, a partire dal 1996 è stata la sua casa: la NBA. Una Lega indiscutibile ora, ma che fino ad inizio anni ’80 era tutto fuorché indiscussa, anzi. Con la reputazione di luogo di aggregazione di atleti svogliati e drogati, che pensano solo alle statistiche, per perdigiorno e atleti di colore ( due insulti, e i due concetti troppo spesso andavano in modo ignorante a braccetto) nessuno aveva la benché minima attenzione di intrattenere affari con la NBA, almeno finché non apparve all’orizzonte David Stern: genio pragmatico, manager entusiasta e leader collerico e dai modi talvolta dittatoriali, l’avvocato newyorchese prese a mano la creatura gestita in modo scialbo dai predecessori e le diede lustro, e dal Paleolitico la portò nella Modernità cavalcando da principio la spettacolarità delle azioni di Julius “Doctor J” Erving. Poi vennero le quattro epoche della NBA contemporanea.

L’Era di Larry e Magic (1979 – 1989) fu la prima, quella che fece sì che la popolazione statunitense si schierasse dall’una o dall’altra sponda, quella che non lasciò indifferente nessuno e che fece tornare a parlare in positivo della maggiore lega professionistica di pallacanestro;  poi fu l’Era di Jordan (1989 – 1998), il campione in grado di unire tutti sotto la sua semi-divinità (alata), l’uomo che inventò l’atleta moderno, quello che ha un occhio mezzo a sponsor, partnership, diritti d’immagine e industria fondata sul suo brand e mezzo al gioco, ma che con quel mezzo occhio riesce comunque a compiere prodigi sul campo; poi venne l’Era di Bryant (1999 – 2010), l’uomo che voleva vincere non perché economicamente ne avesse bisogno, come i tre prima, ma perché doveva, perché non poteva non vincere, perché lui era il migliore; infine, quella che stiamo vivendo attualmente è l’Era di LeBron James (2010 – in corso), l’eroe che fuori dal campo sposta gli equilibri più che sul campo, che è un marchio globale a cui si possono perdonare anche i vuoti sul parquet.

Molti di voi a questo punto saranno sul piede di guerra. “Ma come?” direte “Manca Isaiah Thomas! E Shaquille O’Neal! E Tim Duncan! E Stephen Curry!”. Vero, mancano tutti loro, e molti, molti, molti di più. Quella di prima è effettivamente una divisione semplicistica, che non tiene conto solo dei titoli vinti ma dell’impatto nell’immaginario collettivo degli appassionati di pallacanestro, come atleti simbolo della pallacanestro mondiale. E detto che forse l’Era di Curry potrebbe essere già iniziata (ma non lo sapremo prima di qualche anno), resta il fatto che nessuno, ad oggi, a livello di iconografia può rivaleggiare con i quei quattro sopra citati, con Bird e Johnson che di fatto sono un soggetto unico.

Entrando nello specifico, seguendo questo ragionamento la terza Era appartiene a Kobe anche se all’inizio la stella dei suoi Lakers era Shaq, anche se dopo di lui hanno vinto Duncan e Billups, Wade e Pierce. Kobe era quello che più di tutti faceva notizia, che più di tutti divideva le opinioni, la cui ferocia agonistica era senza pari e i cui messaggi non venivano mai ignorati. Vinse la battaglia contro Shaq e Phil Jackson nel 2004, vinse quella per riavere Coach Zen un anno dopo e quella per avere compagni all’altezza tra il 2007 e il 2010 (Odom, Gasol, Fisher, Artest). Sapeva quando cedere il passo agli altri e quando invece farsene carico perché loro non riuscivano, non se n’è mai uscito con frasi epiche come Bird o Jordan perché lui portava tutta l’epicità sul campo. Nel 2010 LeBron gli rubò le luci della ribalta con The Decision, pochi giorni dopo che Kobe aveva vinto il suo quinto titolo. Un ideale passaggio di consegne.

Someone like you

Al di là del fatto che siano due campioni molto diversi che non hanno mai potuto sfidarsi nelle Finals (come Kobe e Jordan: coincidenze?) i due rappresentano comunque stadi evolutivi differenti della figura del giocatore professionista di pallacanestro, o se preferite modi simili ma non uguali di concepire quest’ultimo.

Per questo sarebbe un esercizio privo di utilità cercare di trovare un erede di Bryant: lui è unico nel suo genere, ha indicato una strada, quella del duro lavoro e del superamento dei propri limiti come elemento imprescindibile per superare gli avversari, zittire i detrattori e strappare applausi agli indifferenti. Kobe ha fatto per la palla a spicchi più di quanto questa abbia fatto per lui. L’arancia è stata suo amore sin dagli esordi sin dalla giovane età, anche in Italia a seguito del padre, e lui ha ricambiato offrendo impegno, sacrificio, dolore fisico e interiore. Si è innalzato sugli altri perché si riteneva il migliore per poterlo fare. Quando ha capito che il vento era cambiato, ha semplicemente voltato pagina. Come solo i grandi sanno fare. È il motivo per cui questo articolo celebrativo non parla di fatti, di numeri, di titoli, se non quelli strettamente necessari: perché quelli sono statistiche, e le statistiche sono per i perdenti, come diceva Bird (ancora coincidenze?). Quello che Kobe ha significato non lo troverete sulle statistiche. Lo troverete sui volti di chi ama il basket.

Nota a margine

Con questo articolo si chiude ufficialmente il 2015 di Tiri Liberi: per il quarto anno di fila ho cercato di raccontare il mondo della pallacanestro nel modo più coinvolgente e interessante che mi fosse possibile. L’impegno non è mai venuto meno, la passione nemmeno, il tempo e le forze talvolta sì ma è stato comunque un piacere riuscire a ritagliarsi sempre e comunque un angolino dove offrire curiosità, punti di vista, idee, narrazioni degli eventi più che mere cronache. Quattro anni sono un bel numero, la strada percorsa è stata tanta, quella davanti potenzialmente è ancora di più. 

La speranza, augurando a tutti i lettori buone feste, è che l’anno prossimo venturo porti ancora più basket e di maggior qualità  case degli italiani.

Best wishes

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