#jesuisunêtrehumain


Piange Parigi violata, percossa e straziata.

Piange con lei il resto del mondo, che all’urlo di dolore dell’intera Francia, non esita a tingersi dei colori della sua bandiera e a intonarne l’inno nelle piazze, per le strade, sugli spalti degli stadi. #jesuisparis strillano i social network, mentre le pagine dei giornali e i tavoli dei Grandi accolgono con una facilità estranea al nostro tempo la parola guerra. Tuttavia non è in queste righe che l’inumana violenza che ha sconvolto Parigi la sera del 13 novembre può trovare spiegazione, a patto che ne esista una.

Cette nuit” recita Le Monde all’indomani della strage “la ville aussi, ils l’ont tuée.”

Null’altro credo debba essere detto.

Ma di fronte a questa atrocità come si potrebbe non riflettere, pur se nel silenzio del pianto e della rabbia? Vorrei non pensare, vorrei che il Bataclan fosse il solo esempio di ingiustificabile crudeltà nella storia dell’uomo e che la tempesta d’odio scatenatasi dinanzi al suo orrore non avesse precedenti. Non è così. Per natura, o forse per abitudine chissà – preferirei la prima forse, soltanto perché mi permetterebbe in qualche modo di alleggerire il peso della colpa- l’uomo è sempre stato incapace di relazionarsi agevolmente con la diversità, con ciò che percepisce come altro rispetto a sé. E quello che convenzionalmente etichettiamo come mondo classico ne fornisce una prova tangibile; è sufficiente infatti calarsi nella realtà delle antiche poleis greche per rendersi conto di quanto una società troppo spesso velata dalle glorie del mito sia invero molto vicina alla nostra, più di quanto lo scorrere dei secoli suggerisca.

Allo straniero che si presentava alle loro porte infatti, gli Elleni riservavano l’epiteto di barbaros, letteralmente “balbuziente”, che individua in chiunque non sia greco colui che si esprime in maniera inarticolata o comunque poco comprensibile. E’ chiaro pertanto quanto il lessico stesso si presti all’esaltazione della grecità e alla parallela denigrazione della non grecità. Non sarà lungo il processo linguistico che renderà il termine barbaros applicabile all’insieme di tutti i popoli stranieri, senza distinzione alcuna di etnia o cultura. Tuttavia l’insanabile frattura tra Greci e stranieri non si potrebbe spiegare compiutamente se non si considerasse un elemento fondamentale del pensiero greco, ossia il collegamento tra parola e pensiero. La facoltà di esprimersi in maniera chiara infatti appariva loro indissolubilmente legata alla capacità di pensare, pertanto nell’opinione dei Greci soltanto i Greci (o coloro che sapevano esprimersi nel loro idioma con proprietà di linguaggio) erano esseri pienamente razionali. Ulteriore vigore a questa concezione non poteva che scaturire dalla filosofia, che proprio nella vivacità della polis ha la propria culla; trovava infatti piena teorizzazione la scissione insita nella personalità dell’uomo tra una parte razionale, collocata nel cervello, e una irrazionale, che si nutre di passioni e ha sede in parti diverse del corpo, a volte nel fegato, altre volte negli intestini, più spesso nel cuore. Negli uomini civilizzati la mente razionale di norma trionfa sull’irrazionale; nei barbari, invece, l’equilibrio appare sovente ribaltato e la luce lascia spazio alle tenebre, l’ordine al caos.

Dominare sopra i barbari” scriveva Euripide “agli Elleni ben s’addice.”[1]

Si dice addirittura che, alla vigilia dell’impresa d’Asia, Aristotele avesse suggerito al più celebre dei suoi allievi di trattare come esseri umani soltanto i Greci, riservando a tutti gli altri popoli il rispetto che meritano le bestie. Fortunatamente Alessandro non gli prestò orecchio e si lasciò ammaliare dal misterioso Oriente, inaugurando un sincretismo culturale che ancora oggi stupisce, commuove e forse un pochino insegna. Ma se la lingua si schierava così diligentemente contro le insidie del diverso, potevano forse accontentarsi delle retrovie le arti figurative? Il loro apporto fu tale che il VII sec. a.C. viene convenzionalmente chiamato dagli storici dell’arte “età orientalizzante”; a seguito infatti delle relazioni commerciali con l’Oriente, favorite dalle colonie e dalla conseguente apertura di stabili canali di comunicazione, l’arte greca si appropria del repertorio iconografico di numerosi popoli barbari.

Tuttavia, non accontentandosi di produrre mere imitazioni, le officine elleniche reinterpretano le iconografie straniere, mutandole in un paradigma di violenza e brutalità. Ed è così che l’arte si popola di mostri e chimere, pronte a scagliarsi contro l’ordine figurativo greco fino a sconvolgerlo. La diversità si fa immagine e la cultura ellenica, con tutto ciò che rappresenta, viene ritratta nella sua inevitabile lotta contro la mostruosità di un mondo altro.

Per concludere credo meriti un cenno una delle più celebri tragedie della letteratura greca, nella quale si dà voce più che mai ai pregiudizi verso i popoli stranieri, pregiudizi che sembrano invero pienamente giustificati nei versi di Euripide e nella terribile storia che questi dipingono. medea-and-other-playsLa Medea euripidea narra un mito ben noto agli spettatori ateniesi, ma gli conferisce una potenza e una crudeltà senza precedenti. Il giudizio è implacabile, per quanto alcune scene sembrino indugiare sul dolore di Medea, “sola, priva di patria” e abbandonata dall’uomo che l’ha strappata alla terra natia, dopo averla indotta a scagliarsi contro la sua stessa famiglia. Medea è una donna spogliata di ogni cosa, amata e poi tradita in una terra inospitale. Si piange per lei, non per Giasone che senza troppo soffrire la ripudia per una più giovane e regale sposa. Tuttavia ben presto la brutalità di Medea si insinua tra le pieghe del suo dolore, e la sofferenza diviene odio, l’odio vendetta, la vendetta inumana violenza. “Il tuo sarà un matrimonio su cui piangerai![2] urla Medea per zittire le giustificazioni del marito e annunciare la scia di sangue che da allora in avanti accompagnerà i suoi passi.

La ferinità di Medea trova riscontro poco dopo in un’amara ma risoluta battuta che fa eco a quanto si diceva in precedenza circa la facilità con cui il barbaro cede ai comandi della propria irrazionalità: “che errore aver lasciato le case paterne, essermi fidata delle chiacchiere di un Greco che me la pagherà, se Dio mi aiuta. Non vedrà mai più vivi, per il resto dei suoi giorni i figli che gli ho dato io e non ne avrà dalla novella sposa, perché lei, l’infame, deve morire in maniera infame per i miei veleni.” [3] “La passione in me” continua accecata dall’odio “è più forte della ragione e la passione è la causa delle peggiori sciagure nel mondo.[4]

Se lo spettatore, di allora come di ora, può sopportare l’uccisione della donna amata da Giasone, di certo non è capace di provare pietà per Medea quando questa affonda il coltello nel petto dei suoi figli, fragili e innocenti, strappati alla vita per ferire il padre. Nessun tradimento, nessun dolore rende accettabile l’assassinio di due bambini, inconsapevoli pedine sulla scacchiera della vendetta.  Nulla lo spiega se non la barbarie del carnefice.

Ero cieco quando da una casa e da un paese barbaro ti ho portata in una casa greca” piange Giasone, davanti al corpo esanime dei suoi figli “questo una donna greca non lo avrebbe osato mai!”.[5]

Di certo non si può capire né tantomeno giustificare l’atto di Medea. Nessuna madre dovrebbe sfiorare i propri figli, per quanto grande sia il dolore che la dilania; nessuna sposa dovrebbe avvelenare la rivale, pur se schiacciata dalla gelosia e dalla vergogna. Ma perché non lasciare a Medea le colpe di Medea attribuendole a lei sola, greca o non greca che sia? Lo stesso si faccia per Giasone che, pur potendosi vantare della propria grecità, senza dubbio sarebbe saggio se celasse allo spettatore le imprese della moglie straniera, senza la quale mai avrebbe conquistato il vello d’oro che lo consegnò alle glorie del mito. Condannare il diverso in quanto tale è più semplice che giudicare i singoli, ma serve forse a qualcosa?

L’intolleranza è l’arma che l’uomo rivolge costantemente contro se stesso, la piaga che lo fa zoppicare da troppo tempo e che non guarisce, forse perché il malato non si affanna poi troppo nel curarla; la comprensione invece, senza la quale la tolleranza muove ben pochi passi, è l’unica medicina capace di estirpare il male, di annullarne la natura stessa. Perché  #OnEstCharlie o  #OnEstParis ci appartiene oggi e purtroppo domani già svanisce.

Ma qualunque sia il Dio che preghiamo (o che non  preghiamo), qualunque sia il colore della nostra pelle, il taglio dei nostri occhi o il suono della nostra voce, #OnEstTousDesÊtresHumains.

#toujours.

[1] Euripide, Ifigenia in Aulide, v.1400.

[2] Euripide, Medea, v. 626.

[3] Euripide, Medea, vv. 800-806.

[4] Euripide, Medea, v. 1079-1080.

[5] Euripide, Medea, vv. 1329-1331; v. 1339.

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