Progetto HOPE – La selezione (parte 1)
Come vennero a conoscenza delle mie capacità lo seppi, dolorosamente, molto tempo dopo. David, il direttore esecutivo a cui facevamo capo, mi disse che era stato deciso di aggregarmi al progetto HOPE dopo quel famoso episodio a Princeton, e d’ altronde c’ erano ben pochi dubbi in merito. Ma penso sia meglio andare con ordine.
Il mio nome è Dirk Meijer. Sono nato a Leiden, una cittadina dell’ Olanda meridionale conosciuta per le poesie riportate sui muri del centro storico. La mia famiglia,benestante, mi ha sempre incoraggiato a seguire le mie passioni, che erano essenzialmente la filosofia, il cinema e le arti visive in generale. Proprio per approfondire la conoscenza di queste ultime, finita la scuola superiore, riuscii a farmi iscrivere all’ università di Princeton, non senza qualche perplessità da parte dei miei. Insistetti molto, non fu facile, ma alla fine fui convincente: sentivo il bisogno di un’esperienza che mi mettesse alla prova, dopo che non mi ero mai del tutto separato dal contesto in cui ero cresciuto. Così, dopo essermi a lungo preparato, finalmente arrivò il giorno che partii. Contavo che fosse il viaggio che mi avrebbe cambiato la vita. Non immaginavo quanto ciò sarebbe stato vero.
Un caratteristica di me è che non concepisco lo status quo. “Si fa così perché si è sempre fatto così” è una frase che mi fa letteralmente imbestialire. Capirete quindi che non fui molto disponibile, quando due settimane dopo l’ inizio delle lezioni mi si presentarono i ragazzi dell’ ultimo anno con il loro assurdo rito di iniziazione (talmente assurdo che al momento mi sfugge quale fosse, anche se che doveva trattarsi di qualcosa di umiliante). Lì negli Stati Uniti era una pratica comune, ma bisogna capire che io ero un ragazzo olandese schivo e abbastanza irritabile. Fatto sta che sulle prime li ignorai, poi respinsi le loro visionarie richieste, infine li mandai al diavolo. Errore madornale.
Due mi presero di peso e mi portarono in disparte ma non troppo, con il duplice intento di non farsi beccare ma di dimostrare agli altri studenti che anche nella coltissima Princeton ciò che dicevano gli anziani era legge. Lì ebbi la prima manifestazione del “fenomeno”. Dopo i primi due o tre colpi che mi assestarono, cominciai a sentire dentro di me qualcosa crescere. All’ inizio pensai un effetto psicologico, una reazione al non voler essere malmenato davanti agli studenti. Poi alzai lo sguardo: più mi colpivano, più i loro occhi si facevano terrei, esterrefatti, come se la situazione gli fosse d’ improvviso sfuggita di mano. Due cominciarono a indietreggiare, seguiti via via dagli altri. Ne rimase solo uno di fronte a me: aveva il viso pallido, la bocca aperta e le pupille dilatate.
Istantaneamente reagii: «Che fai ancora qui? Non vedi che sei rimasto solo? Sparisci, raus!»
In un lampo rimasi da solo. Mi guardai, e rimasi sbalordito tanto quanto i miei aguzzini quando finalmente capii che cosa li aveva spaventati. Ero improvvisamente diventato più alto di venti centimetri, e anche la massa muscolare e gli arti erano aumentati proporzionalmente. Mi accasciai a terra stralunato: chiusi gli occhi, per due minuti che mi sembrarono due secoli. Dovevo ancora metabolizzare. Quando li riaprii ero tornato alle dimensioni normali.
Nei giorni seguenti cercai di capire se era stato solo un sogno, se mi ero immaginato tutto, se magari durante il pestaggio mi avevano drogato. Ma no, nessuna delle tre cose era possibile, ero certo di quello che avevo provato, ero certo che fosse reale. Meno di quarantotto ore dopo la mia sicurezza si fortificava: avevo un superpotere.
Chiaro, bisognava vedere se si sarebbe manifestato ancora, quali erano la sua durata e la sua portata, se potevo controllarlo o se si manifestava istintivamente. Mi dissi più volte che ero stato accontentato, che Princeton mi aveva cambiato la vita, malgrado ci avessi speso poco tempo. Ma le sorprese erano ancora di là dal finire.
Una settimana dopo, verso le 10 di sera, sentii bussare alla mia porta. Aprii, e vidi due uomini in completo nero. Uno di loro, alto, magro e di colore, mi chiese: «Dirk Meijer?».
«In persona» risposi perplesso. «Chi siete?»
«Questo per il momento non possiamo dirlo. Vuole avere la bontà di seguirci?»
L’ assenza di testimoni in corridoio, l’ autorità che emanavano, il loro aspetto minaccioso e un paio di Smith&Wesson appese alla loro fondina mi sconsigliarono di declinare l’ invito. Durante il viaggio, dentro la loro berlina nera, pregai tutti gli dèi che mi venivano in mente che non mi stessero portando via per farmi fuori. Fortunatamente, non andò così.
(1- continua)Ste
+ Non ci sono commenti
Aggiungi