Mondiali 2014: l’Inghilterra cerca la sua corona


La Regina Senza Corona, i Leoni Domabili, la Grande Incompiuta, La Maestra Senza Cattedra. Metteteci tutto e il contrario di tutto, tirate fuori qualunque perifrasi e metafora, ma il soggetto resterà sempre lo stesso: l’ Inghilterra, o più specificatamente la nazionale di calcio che ad essa fa riferimento.
L
a Storia, quella con la “s” maiuscola, è lì a narrarlo, senza timore di essere contraddetta: la nazionale inglese ha vinto un solo Mondiale, per giunta in casa e in una contestata finale contro i tedeschi (goal fantasma di Hurst convalidato dall’ assistente dell’ arbitro). Da allora, a parte il gradino sotto al podio di Italia ’90, i quarti di finale per gli inglesi sono state le Colonne d’ Ercole. O, se preferite, lo Stretto della Manica. Obiettivamente un peccato, per un movimento che ha saputo sformare nel tempo talenti quali Lineker, Gascoigne, Adams, Shearer, Beckham, Gary Neville, Sholes, Campbell, Owen. Tutti giocatori di alto livello, e tutti con un punto in comune: l’ abissale differenza tra il rendimento offerto nei vari club e quello con la maglia dei Tre Leoni addosso. Che il problema possa essere stato nella guida tecnica non è motivazione valida: negli anni si sono succeduti Revie, Robson, Venables, Hoddle, Keegan, con le perle straniere Eriksson e Capello. Con la sola eccezione di Steve McLaren, ognuno di questi tecnici aveva le competenze tecniche necessarie per guidare la nazionale inglese. Invece, hanno tutti fallito, in un modo o in un altro.

Il sospetto è che il problema sia nella struttura che sostiene il movimento, in particolare nei settori giovanili. Non è un segreto infatti che club inglesi facciano razzie nei campionati esteri di giovani talenti stranieri, e quelli locali che trovino dunque sempre meno spazio: al Chelsea tre stagioni fa fu persino impedito di intervenire sul mercato, a causa di irregolarità nel tesseramento del giovane Lukaku. Interessante in merito l’ opinione anche dell’ Arsenal Jack Wilshere. Sul tema di un’ eventuale convocazione di Januzaj, belga di genitori albanesi, ha affermato: «Se vivi cinque anni in Inghilterra, per me non significa che sei diventato inglese e quindi che puoi giocare in nazionale. Se io vado a vivere in Spagna e ci rimango cinque anni, non significa che giocherò per la nazionale spagnola. Per me nell’Inghilterra deve giocare solo chi è veramente inglese. Dobbiamo ricordarci chi siamo. Noi siamo inglesi, contrastiamo duro, e sul campo siamo un osso duro per tutti. Abbiamo carattere e caratteristiche nostre, come gli spagnoli hanno quella della tecnica».
La Federazione ha affermato che sono idee da estremista, ma è un pensiero su cui riflettere. Prese le debite misure, il ragionamento infatti ha senso: il calcio inglese ha un DNA particolare, come quello spagnolo, quello italiano, quello tedesco hanno il loro. Non è un caso che queste nazionali abbiano vinto proprio quando hanno assecondato quelle caratteristiche peculiari con cui i giovani vengono forgiati fin dalla tenera età. In fondo, il discorso può essere esteso anche alla cultura, alla società di un determinato popolo. Che è poi il principio che soggiace al concetto stesso di nazionale.
La cultura e il popolo inglese, al contrario di quanto accaduto in Italia, non hanno mai avuto bisogno di vincere un Mondiale di calcio per avere autostima, anche se essa sovente è finita per sforare spesso in senso di superiorità nei confronti degli altri. Tra parentesi, era proprio l’ inglese Winston Churchill che diceva: «Mi piacciono gli italiani: vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra».
Discorsi nazionalistici a parte, quello che conta veramente è che davvero ora la nazionale sappia giocare “da Inghilterra”, con quello stile fatto di velocità, corsa, sfruttamento delle fasce, cross che tagliano le difese avversarie per servire gli attaccanti. Un tipo di manovra che se eseguita nella maniera corretta potrebbe mettere in difficoltà tutti, Invencible Armada spagnola compresa.

Personalmente, penso meriterebbe un titolo, finalmente non “con l’ asterisco”, cioè senza sospetti che ne minaccino la validità agli occhi degli appassionati di calcio. Lo meriterebbe per la generazione di fenomeni che ora vestono la divisa bianca: le vecchie volpi Terry, Ashley Cole, Lampard, Gerrard, Rooney, e i virgulti Ramsey, Wilshere, Walcott, Cleverley, Welbeck. A guidarli l’ umile Hodgson, che prima di approdare sulla panchina più prestigiosa del mondo ha fatto la gavetta guidando tra gli altri Malmo, Svizzera, Udinese, Finlandia, Fulham e West Bromwich Albion.
Pazienza se poi dovessero avere un motivo in più per sentirsi un gradino sopra gli altri. In fondo, hanno il modo più bello di concepire il calcio, il tifo più suggestivo, e
hanno debellato quasi totalmente il problema della violenza negli stadi. Manca giusto solo l’ ultimo sigillo. Mondiale.

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