Caffè corretto


L’uomo che entrò quella sera nel locale non l’avevo mai visto. Non era un nostro cliente abituale,
questo 
era certo, ma nemmeno uno di quelli saltuari: ero il barista unico del Caffé Marta ormai da sette anni e queste cose le sapevo. Non mi sfuggiva niente. Era un uomo alto dall’aria trasandata, vestito di un completo grigio chiaro tutto spiegazzato, di quelli che si trovano per pochi soldi al mercato. Si diresse verso il bancone con passo deciso e parlò tenendo gli occhi bassi. Un puzzo rapido e feroce, di cipolle miste a urina di gatto, colpì il mio naso.

-Un caffè.

-Caffé normale?

caffè totò

-Perché, come ce l’avete sennò?

-Normale nel senso di non macchiato.

-Macchiato con latte? No grazie.

Sembrava avere le idee chiare, così gli voltai le spalle e mi accinsi a far atterrare un pò di soffice polvere di caffé all’interno del gruppo da uno della macchina per l’espresso. Cercai a tastoni una tazzina di ceramica, la meno bollente possibile, e la posi sul ripiano d’acciao della macchina, in attesa che si riempisse di caffè quel tanto che bastava.

-Mi scusi, il vetro. Lo voglio in vetro.

Mi voltai verso di lui mentre il caffè aveva già inziato a scendere, esposi il mio miglior sorriso da barista ipocrita e dissi che avrei provveduto subito. Fermai il caffè, misi da parte la tazzina di ceramica mezza piena e ricominciai la procedura di caricamento del gruppo, stavolta prendendo una tazzina di vetro. Forse per l’istinto maturato negli anni che mi porta a subodorare la presenza di un cliente rompicoglioni quando lo incontro, mi aspettavo una nuova obiezione. Invece no, il caffè scivolò dolce nel vetro e glielo porsi sul bancone corredato di piattino e cucchiaino. L’uomo teneva ancora il volto basso, un’aria afflitta come se gli fosse accaduto qualcosa di brutto o, alternativamente, si preparasse a un peggio che doveva ancora arrivare. Notai i due grossi baffi e gli occhi piccoli e furtivi che scrutavano il caffè. Iniziò a mescolarlo con calma.

-Senta, non è che ha un pò di sambuca?

Eseguii la correzione, lui ringraziò sommessamente e iniziò a sorseggiare la bevanda. Una volta terminata, alzò per la prima volta gli occhi verso di me.

-Senta, è un problema se glielo pago domani, il caffè?

Ah-ah, ci siamo. Eccolo il solito trucchetto. Rimandare al giorno dopo un pagamento che non sarebbe mai avvenuto. Mi posi sulla difensiva.

-Di solito non lo permettiamo.

-Nemmeno per un euro? Glielo chiedo per favore. Sono uscito di fretta oggi, e…

Fu qualcosa a colpirmi, forse gli occhi che iniziavano a diventare lucidi, la voce che si incrinava come quella di chi vorrebbe davvero pagare ma non può e se ne vergogna, forse le mani che tremavano sul bancone. Fu quel qualcosa che mi fece cedere.

-Non pensi che io me ne dimentichi.

-No, no, ci mancherebbe. Guardi, lasci pure la mia tazzina vuota sul bancone. Così l’avrà sotto gli occhi e non si dimenticherà di me, fino a domani.

-Ok, va bene. Glielo concedo.

L’uomo si era calmato ed era quasi sereno, ora che avevo accettato la sua proposta. Sembrava trattenere un moto di ringraziamento verso di me, che non poteva manifestare in tutta la sua pienezza per non apparire fin troppo opportunista.

-La ringrazio infinitamente.

Così dicendo si scostò dal bancone e si avviò, a passo malfermo, verso la porta.

-A domani, non si dimentichi.

-Sì certo, a domani.

La sua risposta arrivò mentre stava già superando la porta a vetri e uscendo in strada. Mi aveva fregato? Probabilmente sì, ce l’aveva fatta, era stato un bravo attore e aveva sbaragliato le piccole difese che negli anni avevo eretto contro i clienti scrocconi e furbetti di ogni genere.

In ogni caso, il promemoria di pagamento di quello strano cliente rimase sul bancone a fissarmi per tutta la sera. Passati gli ultimi habitué del grappino notturno, inziai i lavori di pulizia per riconferire al locale l’aspetto decente che esigeva il mio capo. Lo strato di caffé nella tazzina si era solidificato fino a divenire una crosta solida e marrone scuro che sarebbe stato difficile mandare via al primo lavaggio in lavastoviglie, ce ne sarebbero voluti almeno due. E poi l’odore, se ci si avvicinava, non era proprio il massimo. La promessa di quell’uomo, l’impegno che avrebbe pagato quel caffè a tutti i costi, per una forma di orgoglio personale che non ammetteva contestazioni, aveva suscitato in me una pena che in generale i clienti poveracci che cercano di scroccare il caffè non mi causano. Saranno stati gli occhi, cosi piccoli e tristi, e quell’aria così dimessa che alla fine si era impadronita di quell’uomo così alto e imponente, il corpo curvo per il peso di qualcosa – chissà cosa – ma che esprimeva ancora una fierezza mai del tutto sopita. Furono questi i motivi per cui la sera, al momento delle pulizie, nascosi la tazzina ormai colore marrone trasparente dentro il frigorifero per non farla notare dal capo in perlustrazione, e al momento della chiusura delle serrande la rimisi al suo posto sul bancone. La mattina dopo alle sei e mezza, eccola lì ad aspettarmi.

Le otto di mattina. Un cigolio della porta, ed entra il mio uomo. Stavolta i suoi passi sono rapidi, ha l’aria affrettata, è visibilmente rosso in viso e sudato. Indossa lo stesso completo del giorno prima, ma più sporco e – se possibile – più spiegazzato. Giunto al bancone vi si appoggia completamente e mostra un viso sconvolto.

-Senta, se è per l’euro guardi che…

Immerse la mano in un vistoso rigonfiamento della giacca e ne estrasse una banconota da duecento euro, che appoggiò con nonchalance sul legno del bancone come fosse un gratta e vinci.

-Eccole l’euro. Ha da cambiare?

Gli restituii centonovantanove euro di resto dopo aver controllato che il biglietto non fosse falso. Non si sa mai. Lui mostrava un’espressione soddisfatta, ora che aveva pagato, tuttavia pareva anche infinitamente stanco, come se solo l’idea di incamminarsi da dove si trovava gli costasse tanta, troppa fatica.

-Ha visto? Ho saldato il mio debito.

-Se è stanco può sedersi un pò. Riposare.

-No, devo andare. Non sarei nemmeno dovuto venire.

-Gliene offro un altro io, di caffè.

Chiamatela compassione, chiamatela come volete. Sulle prime lui tentennò, visibilmente indeciso se accettare l’offerta. La fretta di andarsene premeva su di lui e gli mozzava il fiato, doveva fuggire da lì, nascondersi da qualcuno o qualcosa, ma un caffé… a un caffé come si fa a dire di no? Alla fine si acquietò e annuì, grato. Un debole sorriso incise i suoi zigomi e sembrò riacquistare un poco di dignità. Prese la sua tazzina sporca sul bancone e la pose lui stesso sul piano di acciao interno, vicino al lavandino. Io intanto ero al lavoro per preparargli un nuovo caffé.

-Ma faccia presto, per cortesia.

Dall’esterno del locale giunse un suono di sirene della pollizia, unito allo stridere dei pneumatici di alcune auto che avevano frenato con violenza nel cortile antistante il bar. Portiere che si aprono, le prime sagome di uomini in divisa che in lontanaza si avviano verso la porta a vetri. Proprio in quegli istanti l’uomo sorseggiava il suo caffè e sembrava non curarsi di quanto stesse avvenendo fuori e dietro di lui, di quella squadra di tutori dell’ordine che stavano per piombargli addosso, del crimine che probabilmente aveva commesso per trovarsi in quella situazione. Beveva lentamente, sapendo che quando avrebbe finito e posato la tazzina sul piattino, qualcuno avrebbe premuto il tasto play della sua vita e la pausa sarebbe finita. I militari entrarono quando lui stava ancora degustando il suo caffé. Lo trovarono così rilassato, così serenamente assorto che pensarono fosse uno scherzo, una montatura studiata per colpirli di sorpresa. Con un secco rumore di ceramica la tazzina planò sul piattino. L’uomo si voltò verso i militari.

-Se sono qui, non è per merito vostro, ma per colpa di un caffé.

Gli agenti avanzavano piano, convergendo verso l’uomo come domatori pronti a saltare addosso al leone che è appena scappato dal circo. Lui strinse l’involto che aveva sotto la giacca con le due mani, quella refurtiva di cui poi avrei appreso la natura dai giornali mentre la ragione, quella non l’avrei mai saputa. L’uomo stringeva il rigonfiamento e sorrideva, mentre gli agenti lo accerchiavano sempre di più, finchè lui non si lasciò andare in ginocchio e sussurrò debolmente.

-Prendetemi.

Non si volse più a guardarmi. Lo portarono fuori dal Caffé Marta con un sorriso di rassegnazione dipinto sulle labbra, l’alito che sapeva ancora di caffè.

 

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