L’odore di nuovo


I luoghi cambiano, nel momento in cui stiamo per abbandonarli. Come se fossero consapevoli delle ultime occhiate che rivolgiamo loro e si sforzino, almeno per quella volta, di apparire gradevoli, più di quanto non lo siano mai stati nell’arco di tutta la nostra permanenza presso di loro.

Il mio appartamento iniziò a comportarsi così circa una settimana prima del giorno in cui l’avrei lasciato definitivamente. Mi colse di sorpresa mentre ero steso sul letto, sfogliando distrattamente la mia tesi stampata di fresco per provare ad impostare una discussione davanti alla commissione di laurea. Non sono in grado di spiegare come, accadde semplicemente che rivolsi gli occhi verso il soffitto della mia stanza e iniziai ad osservarla come mai avevo fatto prima. Scrutavo spaesato quello stesso ambiente in cui avevo vissuto per cinque anni, come se fossi incerto sulla maniera migliore per salutarlo e dividermi da lui. Le sottili ragnatele argentee appese agli angoli del soffitto, lievemente oscillanti ad ogni soffio di vento primaverile. La finestra, i cui cardini cigolavano da tempo immemore e che, specialmente nelle fredde sere invernali, opponeva una misteriosa e insondabile resistenza ai miei tentativi di chiuderla. Il piccolo comodino che avevo ereditato dal precedente inquilino, un quadrato di legno consumato dal tempo i cui cassetti erano inutilizzabili e infine le pareti, di un bianco opaco e stinto che chiedeva a gran voce una riverniciata che mai nessuno gli avrebbe dato.

Tutto appariva insolitamente simpatico e gradevole, ogni dettaglio inquadrato dai miei occhi sembrava osservarmi di rimando, soppesarmi come io facevo con lui, e sussurrarmi all’orecchio: “Lo vedi, in fondo non sono così male”. Mi alzai e perlustrai la stanza. Ogni passo che muovevo era una nuova scoperta, vedevo le mie cose, i volumi nella libreria, i vestiti sistemati come potevo nell’armadio e pensavo al vuoto che avrebbero lasciato una volta tolti, strappati alle lisce superfici polverose che erano stati costretti ad amare, a farne la loro casa.

 E poi c’ era il sollievo economico, tutto materno, di pagare finalmente l’ultima rata di affitto. Lei non vedeva l’ora che l’avventura universitaria si concludesse, per smettere di pagare quello che ai suoi occhi appariva come un esoso tributo alla mia voglia di libertà ed indipendenza. Dovevo esserle grato, in ogni caso, per l’opportunità che mi aveva concesso, non tutti possono permettersi un’appartamento di questi tempi, sono costi impegnativi, eccetera, tutto verissimo, sacrosanto. I soldi dell’ultimo mese di afftitto gonfiavano la mia tasca, come se premessero per uscire e raggiungere il loro luogo naturale. L’ultimo pagamento da effettuare, in contanti.

La stanza del mio coinqulino, nonchè intestatario dell’affitto, aveva la porta socchiusa. Dalla sottile fessura proveniva un debole raggio di luce e la voce a scatti di David Byrne che cantava Psycho Killer, Qu’est-ce que c’est? Fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa. Mi chiesi se era il caso di bussare lievemente, poi mi dissi di no ed entrai. Lui era steso sul letto nel suo pigiama di Capitan America, le coperte scostate all’altezza delle gambe. Reggeva con entrambe le mani un quadrato piatto e nero, sul cui schermo faceva scivolar le dita con frenesia, ondeggiando la testa a ritmo con i vibrati del cantante.

-Si sta bene, nel tuo mondo.

Lui alzò per un istante gli occhi dall’oggetto che stava contemplando, poi accertata la mia presenza li riabbassò. Mi rispose con una specie di grungnito, che poteva suonare come “mica tanto” ma anche come “in fondo, non mi lamento”.

-Ho i soldi dell’affitto.

-Lasciali qui sopra. – e indicò il tavolino alla destra del letto, liberando una mano dall’eterea superficie a cristalli liquidi.

-Non vuoi contarli?

-Mi fido.

Una fanfara vittoriosa uscì dall’oggetto, e lui fece un breve sorriso soddisfatto.

-E’ la mia ultima settimana questa.

Non so perché lo dissi, probabilmente lasciai cadere le parole nel vuoto per sentire che suono avessero, l’effetto che potevano avere su di me. Lui abbassò l’oggetto e sembrò fissarmi con una leggera ostilità, e insieme a lui la sua stanza, tappezzata da poster di aerei ed elicotteri militari come un museo dell’aviazione a corto di fondi. Il piego di banconote mi esplose in mano mentre lo tiravo fuori dalla tasca, un biglietto da venti euro volteggiò lento nell’aria, lo osservammo planare sul pavimento. Lui si sollevò a fatica dal letto, posò l’oggetto, afferrò con rapidità la banconota da terra e se la mise in tasca insieme al resto dei contanti.

-Tutto qui?

-Sono duecento, come al solito.

Lui inclinò leggermente il volto e sorrise, divertito. I suoi occhi si fecero vitrei e sottili, vidi le sue labbra muoversi ritmate prima che mi arrivasse il suono.

-Mi ero dimenticato di avvisarti. Le spese condominiali. C’è stato un aumento. E il posto auto, questo mese tu l’hai utilizzato più di tutti e visto che te ne vai…

Fu la mia mano a muoversi, automaticamente, prima che potessi esprimere quali fossero i miei veri sentimenti verso la persona che avevo di fronte. La mano frugò nella tasca, trovò venti euro rimasti e glieli porse, senza che potessi controllarla. Un secondo dopo non c’erano più, fatti sparire nei recessi del suo pigiama. Lui accentuò il suo sorriso e tirò indietro la testa.

-Prepari qualcosa tu da mangiare, oggi? Consideralo un regalo d’addio verso di me.

 La porta della cucina non si chiudeva perfettamente, il fabbro aveva detto che non si poteva sistemare senza pagare e perciò rimaneva così. Padelle, piatti, tazze e posate sporche erano ammonticchiati in modo confuso, rivoli di acqua biancastra si erano solidificati sul piano, venandolo di piccole arterie pallide. Le stoviglie, che rimandavano un’odore di sugo stantio, erano sparse qua e là come a formare un dipinto astrattista, mentre i bicchieri unti erano infilati l’uno dentro all’altro a formare piccole torri pendenti. La tabella con i turni delle pulizie, con i nostri nomi scritti in colori diversi, osservava beffardamente tutta quella confusione. Nello spostare i cumuli di piatti dentro il lavandino per fare spazio, arricciai il naso.

Ecco che cos’era. L’odore. Su quello la casa non poteva ingannarmi, lo percepivo distintamente attraverso le mie narici, il sottile ma persistente odore dei cibi lasciati marcire nel frigorifero, dei piatti sporchi lasciati riposare in un limbo di sporcizia sul tavolo e sul piano cucina, le pungenti fumarole di puzzo invisibile che salivano dalla pattumiera, i pavimenti lavati di rado, che mostravano in controluce centinaia di impronte. Era tutto questo il segnale che nulla era cambiato, in fondo. Presi dal frigorifero un cartoccio di prosciutto e della mozzarella. La data di scadenza. Parlava chiaro, citando come termine ultimo per il consumo la fine del mese scorso. Accostai il naso al prosciutto. No, dall’odore non si sarebbe detto. Mi volsi al bidone, sollevai il coperchio per farci scivolare dentro il cartoccio, ma poi mi fermai. Richiusi il bidone e poggiai il prosciutto sul piano cucina, insieme alla mozzarella.

Feci un urlo al mio coinquilino.

-C’è del prosciutto. Te lo lascio per dopo?

-Fantastico! Ne vado matto.

-Lo so. – sorrisi.

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L’odore di nuovo by Fabio Pirola is licensed under a Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Unported License.

5 Comments

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      • noemi

        SI’, SINCERAMENTE TUTTI GLI ALTRI RACCONTI NON MI HANNO CONVINTA MOLTO… INVECE QUESTO E’ SPLENDIDO. MI e’ sembrato di stare in quella casa… in quella stanza e per la testa mi ronzavano i tuoi stessi pensieri… mi hai fatto vivere quel momento. In riferimento al contenuto, certamente ha ragione “Mareva”.

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