Intervista a Umberto Giardini


Umberto Giardini è tornato.
A tre anni di distanza dall’abbandono del progetto Moltheni, durato ben 10 anni e forte di sette dischi, il cantautore marchigiano torna mettendoci di nuovo faccia, voce, chitarra e firma. È infatti con il nome Umberto Maria Giardini che firma il suo inatteso ma graditissimo ritorno discografico: “La Dieta dell’Imperatrice” (La Tempesta/Woodworm).
Un titolo molto suggestivo, che Umberto stesso ai microfoni della trasmissione radiofonica “Sotterranei Pop” giustifica in questo modo: «L’imperatrice è la musica, costretta a stare un po’ a dieta, negli ultimi tempi».

Il disco, uscito il 5 ottobre e anticipato dal singolo “Quasi Nirvana”, è finalmente partito per il tour che porterà la squadra di Umberto Maria Giardini a calcare numerosi palchi lungo lo stivale.
Il prossimo sarà quello del Teatro Petrella di Longiano (FC), venerdì 19 ottobre, con Matteo Toni in apertura, in un concerto organizzato da Retro Pop, in collaborazione con Monogawa.
In attesa dell’evento, abbiamo posto qualche domanda a Umberto sulla nuova strada intrapresa, sull’ elegante e ricercato lavoro prodotto, e non solo.
Ecco cosa è emerso.

 

Domani (13 ottobre) parte il tour de “La Dieta dell’Imperatrice”. Quali sono le sensazioni alla vigilia del primo concerto del nuovo tour, che ti vede tornare protagonista in prima persona?

Le sensazioni sono positive. Da una parte c’è eccitazione su quello che potrebbe riservare il futuro; dall’altra ci sono consapevolezza e serenità, trasportate dall’esperienza degli anni; quindi tutto sommato non credo ci sarà molto spazio per l’emozione. Affrontiamo il primo palco al Karemaski di Arezzo con molta gioia.
Saremo concentrati a fare una buona performance, poi vedremo.

 

Per “La Dieta dell’Imperatrice” hai cambiato squadra di lavoro, dal produttore ai membri della band. La scelta è dovuta a una questione puramente artistica, o anche di necessità, considerando che da quando hai chiuso il progetto Moltheni probabilmente i componenti della squadra precedente hanno intrapreso altre strade?

Le necessità e le circostanze sono state svariate.
Innanzitutto, ho voluto cambiare componenti della band perché nel nuovo progetto i suoni e l’approccio sono un po’ mutati; per esempio, non c’è più il basso.
Secondariamente, avevo proprio voglia di darmi una rispolverata, anche sotto questo profilo.
Infine, avevo bisogno di allontanarmi da tutte le persone che mi avevano circondato per tanto tempo. Gli ultimi anni di vita di Moltheni erano stati un po’ tribolati. A volte nel lavoro può succedere che avendo a che fare con gli stessi collaboratori per molti anni, si diventi una famiglia: trasformazione che ha anche aspetti negativi.
Quindi ho assecondato il bisogno di rinnovamento cambiando elementi della band e proponendo un diverso tipo di suono.

 

Le domande su “La Dieta dell’Imperatrice” sarebbero svariate, sopratutto per quanto riguarda i testi, che trovo di difficile interpretazione. Però vorrei partire da un’altra questione: quanto tempo fa hai cominciato a concepire il disco?

Premetto che una volta annunciato l’abbandono del progetto Moltheni, ho vissuto un anno sabbatico in cui mi sono tenuto in allenamento cambiando strumento e lavorando al progetto strumentale psichedelico Pineda. Conclusa anche questa avventura, ho iniziato a pensare al “La Dieta dell’Imperatrice” poco più di un anno fa, nell’estate del 2011, in occasione di uno dei miei primi incontri con Anna Calvi. Gli aspetti che più mi hanno colpito di questa artista sono stati la produzione del suo disco d’esordio, e le questioni tecniche legate alla sua band e alle sue performance live. Gli incontri con Anna Calvi hanno fatto sorgere in me una grande energia, e mi hanno aiutato a capire quello che volevo fare, come volevo farlo, con quali intenzioni e atmosfere.

In seguito ho iniziato a programmare la band e a fare un piano di lavoro serio. Ho pensato a questa nuova produzione sull’impronta dell’impostazione tecnica di Anna Calvi, con strumenti elettrici, senza il basso.
È iniziato tutto proprio l’anno scorso di questi tempi. Siamo partiti con i primi appunti che avevo preso a casa da solo, riprendendo in mano la chitarra acustica.

Poi, ad aprile di quest’anno, ci siamo messi nell’ottica di registrare il disco. E dopo un confronto con Antonio “Cooper” Cupertino, amico fraterno e produttore dell’album, a giugno siamo entrati in studio.

 

Dal punto di vista dei contenuti, e dei temi trattati dai testi, quali sono state le suggestioni che ti hanno ispirato?

Quando scrivo, difficilmente mi lascio ispirare da ciò che mi circonda. La mia ispirazione spesso nasce da archi di tempo molto vasti, durante i quali si genera uno stato d’umore particolare nel relazionarmi con le persone che mi circondano. Non ho una vera e propria ispirazione del momento. Ho sempre avuto un approccio alla scrittura che definisco psichedelico: mi considero visionario, quindi i momenti migliori per scrivere le liriche sono quelli in cui mi alieno.
A me bastano carta, penna e un momento di silenzio davanti a un muro per produrre un testo.
Io ho un metodo di lavoro molto preciso: prima penso alla musica, sempre. Difficilmente riesco a scrivere un testo se non ho il brano quasi finito dal punto di vista strumentale. Avendo in testa già la musica, riesco a scrivere il mio testo dandogli i giusti colori, ispirazione, atmosfera, proprio perché mentre lo scrivo, lo canticchio.
Quindi, in sostanza, sono stato ispirato da tutto e da niente.

Però, per questo disco, ho preso a cuore un elemento che io reputo molto presente nella società attuale: l’incomunicabilità tra le persone. Considero questa difficoltà nell’intenderci e tradurci tra noi un fattore sempre più attuale, ed è un elemento che emerge molto dai testi di questo disco.
Però, come è sempre stato ed è giusto che sia, l’ascoltatore traduce ciò che sente col significato che preferisce.

 

È molto interessante questa risposta, perché spesso quando l’ascoltatore si accosta a un disco, può tentare di capire quale importanza l’autore dia al piano musicale e a quello delle parole. Nel tuo caso, secondo me, sono molto importanti entrambi.

Infatti lavoro in maniera distinta su tutte e due le cose.
Più precisamente, le fasi sono tre.
Prima penso alla musica. Per abitudine non registro mai nulla, neppure le prove in studio, perciò ricordo le bozze dei brani a memoria. Poi faccio i testi avendo già il pezzo in testa.
Così si passa all’ultima fase, cioè l’arrangiamento di musica e parole.

 

Nel comunicato stampa che accompagna il tuo ritorno, si legge che questo è stato dettato in primo luogo dal tuo bisogno di tornare a suonare dal vivo. E anche dal desiderio di rimetterti in gioco dal punto di vista della scrittura. Dato il modo con cui avevi chiuso il progetto Moltheni e le dichiarazioni forti fatte anche sulla musica indipendente italiana, hai pensato che tornando saresti potuto essere accusato bonariamente di incoerenza?

Innanzitutto, quando ho chiuso il progetto Moltheni non avevo messo assolutamente in preventivo di tornare. Neppure intendevo dire che avrei chiuso definitivamente con la musica; probabilmente non smetterò mai di fare il musicista.
In ogni caso, non immaginavo che a distanza di tre anni avrei ricominciato a suonare mettendomi in prima linea io – chitarra e voce – e scrivendo un disco che, seppur molto diverso dal lavoro di Moltheni, può essere letto come sua prosecuzione.

Ciò che ho affermato tre anni fa era esattamente ciò che pensavo. Come sempre faccio: dico ciò che penso al momento. Ma dopo tre anni mi sono reso conto che mi mancava tantissimo suonare, e ho ricominciato proprio perché ne avevo bisogno. Però non è detto che questo mio progetto attuale duri nel tempo; potrei aprirne di nuovi, anche diversi. Io sono una persona molto poliedrica.

In ogni caso, molte cose dette in quella occasione le sottolineo più marcatamente. È il caso di ciò che avevo espresso riguardo al mondo dell’indie: lo ribadisco, e penso che la situazione sia peggiorata molto da allora.
Siamo in una fase estremamente sterile, causata non tanto dall’incapacità dei musicisti di creare progetti nuovi, quanto più da una ragione economica. Non ci sono più soldi, e questo crea molte difficoltà: i promoter stanno esaurendo le risorse, i club chiamano in concerto sempre gli stessi nomi. O lavorano i piccoli artisti, che si accontentano di un misero rimborso spese, oppure lavorano band grandi che chiedono 20000 euro a data, perché i promoter hanno paura di rischiare.
Il mercato del live è diventato insostenibile, e presto crollerà.
Probabilmente arriveremo a non avere scelta, e a dover prendere solo quello che ci verrà propinato; perciò lavoreranno solamente le band grosse, e i piccoli tenderanno ad arrancare.

Da un punto di vista prettamente artistico, non c’è niente di nuovo, perché le piccole etichette valgono meno di zero. Ogni giorno vengono fuori nomi ridicoli che non smuovono il mercato, e non smuovono le coscienze. E finiamo per accontentarci dei soliti nomi.
Quindi ribadisco tutto quello che avevo affermato aspramente anni fa in intervista sul settore musicale italiano.

 

In questo nuovo tour, proporrai pezzi di Moltheni?

Sì, dal vivo proporremo anche alcuni pezzi di Moltheni.
Sono brani che amo alla follia, ai quali sono rimasto molto legato. Li abbiamo scelti accuratamente per cercare di essere di buon gusto e coerenti con le sonorità de “La Dieta dell’Imperatrice”.
Abbiamo scelto “Verano” (da “I segreti del corallo”, ndr); poi “L’alba, la notte e l’inferno” (da “Toilette memoria”, ndr), una sorta di tango elegantissimo; poi abbiamo riarrangiato “In porpora”, un brano del 2004 cui sono molto affezionato, che appariva su “Splendore Terrore”.

Secondo me parte del pubblico si accorgerà di questi inserimenti, ma moltissimi non se ne renderanno conto, perché si tratta di brani vecchi, quasi sottovalutati negli anni passati: basti pensare che non li suonavo quasi mai dal vivo.
Semplicemente, sono chicche che piacevano a noi, e che abbiamo voluto rispolverare.

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