Gabriela, periodismo gonzo y canela


Ferrara. 6 ottobre. Seconda giornata del festival di Internazionale, una rivista che – come fa opportunamente notare un’indigena in bicicletta all’amica – si chiama così perché ci scrivono giornalisti internazionali.

Ore 17.30, tre dei suddetti giornalisti internazionali cominciano a rispondere alle domande di una preparatissima Concita de Gregorio, che – dichiaratasi candidamente fan dei tre – tributa loro Pulitzer personali. Sono Julio Villanueva Chang, Gabriela Wiener e Leonardo Faccio, peruviani. Sui tavolini Ikea, qualche numero della (loro) rivista, Etiqueta Negra, una revista para distraídos, incredibili pagine di giornalismo narrativo. Sullo sfondo, la raffinatezza barocca del Comunale, e un sacco di gente.
Se ne potrebbero dire tante di cose, banali, sulla situazione del giornalismo oggi. O dell’Italia, del mondo, della crisi. E qualcuna di queste cose s’è sentita in giro per Ferrara, oggi: del resto, quod capita. Nessuna, però, se ne sente qui: hanno cose ben più importanti da dire, i tre peruviani. Il punto di partenza è: la gente è distratta, le opportunità di informazione sconfinate, tempus fugit: bene, noi – giornalisti – dobbiamo lavorare di più. E dobbiamo farlo andando nella direzione inversa. Voglio dire: presa consapevolezza che una notizia di cronaca raggiunge il pubblico attraverso canali informativi alternativi a quelli tradizionalmente giornalistici, che utilità può ancora avere scrivere l’articoletto di cronaca impreciso (“Nun c’è tèmpo!”, mi pare di sentirli) due ore dopo che la notizia s’è già diffusa? Nessuna, ecco il punto.
Quindi, è chiaro, la strada è un’altra.
È quella del giornalismo gonzo. Che tra l’altro nemmeno sappiamo cos’è. Il nome (gonzo) è quello che in slang irlandese si dà all’ultimo che rimane in piedi (letteralmente) dopo una notte di bagordi. Di fatto, designa un giornalismo che funziona così: io, giornalista, prendo coscienza del fatto che l’oggettività è un obiettivo irraggiungibile quando in qualche modo c’è di mezzo l’uomo, quindi il mio sarà un modo di scrivere soggettivo, che però ammette questa sua parzialità e ne fa un punto di forza. Con onestà intellettuale. Diffidate da chi vi dice che sta scrivendo la verità. Sta scrivendo la sua verità, che è l’unica cosa che può fare.
Dunque, abbiamo detto: in un tempo forsennatamente veloce, Julio Villanueva Chang, Gabriela Wiener e Leonardo Faccio ci mettono un anno e mezzo a scrivere un articolo; e ora aggiungiamo: di fronte alla ferrea regola del giornalismo che predica di tendere all’oggettività (con qualche concessione alla fantasia, per esigenze di cronaca), qui si parla di soggettività spinta. Qui si sta parlando di giornalisti che raccontano storie, mentre fanno reportage. E per raccontare storie ci entrano dentro, con tutti i pericoli del caso, e lo dicono, “Quello che ti sto dicendo non è vero, è vero-per-me. Ma te lo dico fin dall’inizio, non ti ingannerò mai.”
Tra l’altro la definizione “giornalismo gonzo” fu  affibbiato per la prima volta nel 1970 da Bill Cardoso ad un articolo intitolato The Kentucky derby is decadent and depraved, un ruvido commento sportivo di Hunter S. Thompson – quello stesso Thompson che disse poi che gli piaceva tanto scrivere sotto l’effetto di droga e alcol, per cui i benpensanti (noi tutti, proprio) siamo portati a credere che nessuno abbia mai scritto un articolo di giornalismo gonzo senza essersi fatto una canna, per non dire: ecco. Non è questa la maniera in cui la cultura hippy ha influenzato il giornalismo gonzo, almeno non la sola, e non sempre: piuttosto, è la collocazione nel vivo della controcultura, quella di tradizione anarchico-rivoluzionaria, che il giornalismo gonzo ha ereditato da Kerouac e compagnia.
Gabriela Wiener la vedi lì sul divano in ecopelle, il fiore dietro l’orecchio che ti ricorda l’omonima di Amado, con garofano e cannella,  il sorriso imbarazzato da ragazzina, e i capelli lunghi neri da india.  Ringrazia ad ogni domanda che le viene fatta. Ebbene, è nata nel 1975 a Lima, ha studiato letteratura all’Università Cattolica (che voi direte, non era mica un’hippy?) e ha messo alla prova se stessa in una maniera che neanche immaginate. Ne ha guadagnata una pagina su Wikipedia, scherza Julio. Ma, ragazzi: questa qui è l’erede di David Foster Wallace. Per fare un reportage sugli scambisti, è andata in un club per scambisti con suo marito. E l’ha vissuta fino in fondo, l’esperienza: come altro avrebbe potuto documentarla? E quando l’hanno letta, in Peru, credevano che se la stesse inventando. Era tutto vero: su carta, il suo percorso di donna in un mondo che non si era scelta, ma che doveva conoscere da dentro per poterne scrivere. È entrata nelle galere del Sudamerica (che ti privano della parola, vi dico, le ho viste) per studiare cosa c’è scritto nei tatuaggi; per capire la fecondazione assistita, ha donato gli ovuli; ha rischiato tanto, in Amazzonia, in giro.
Mi è parso avesse la voce rotta, mentre ce ne parlava. Voglio dire, non sono cose che è dato capire fino in fondo. L’ha detto, Gabriela, che quello è stato un viaggio indicibile dentro se stessa: e dentro se stessa ci sta sua madre, a cui non avrebbe voluto rivelare nulla, la sua educazione cattolica, le incrostazioni di un Peru reazionario, i traumi che abbiamo tutti. Ma un grande giornalismo. Un reportage di cui è uscito il libro, pubblicato anche in Italia. Il titolo non me lo ricordo. Ma il punto è questo: se siete curiosi (e lo siete, non sareste qui, altrimenti), non ci vuole che un click per andarvelo a cercare. Non serve il giornalismo per reperire le informazioni che stanno su Wikipedia, l’hanno detto anche loro. Il giornalismo deve dire qualcosa in più (e quindi qualcosa in meno).
Resta il fatto che un po’ curiosa lo sono anch’io. Me lo sono cercata, il titolo: Corpo a corpo, edizioni La Nuova Frontiera.

1 comment

Aggiungi

+ Leave a Comment