Alchimie del pregiudizio: da velo a muro


Fatna è una ragazza natia di un villaggio del mezzogiorno marocchino, il cui velo azzurro mette in risalto un delicato viso olivastro con grandi occhi scuri.
Domestica malpagata a Casablanca, si ritrova un giorno su un aereo diretto in Italia per accompagnare la sorella, che necessita di un’ urgente operazione a un braccio. Dei giorni passati nell’ospedale italiano Fatna parla con soddisfazione: rispetto al Marocco la sanità è di tutt’altro livello, ma più che la tecnica e la professionalità le rimarranno in mente il calore e l’umanità dei medici e degli altri pazienti. «Non facevano differenze». Durante questi momenti di felicità, il suo ingresso e la sua permanenza in Italia le sono garantiti da un visto turistico speciale, data la situazione della sorella.

Una volta finita la riabilitazione le due ragazze tornano in Marocco e Fatna riprende la sua vecchia vita di sempre a Casablanca, fino a quando viene a sapere che il visto che l’aveva condotta in Italia rimaneva valido, anche se ancora per poco. Fatna comincia a pensare seriamente di tornare. Ha bisogno di soldi, perché la sua famiglia è in condizioni critiche: lavorano e vivono in una scuola senza essere stipendiati, dunque lei pensa che con più soldi, che in Italia le verrebbero dati, potrebbe permettersi di comprare ai suoi parenti una casa tutta loro. Quando era ancora in ospedale avevano fatto una colletta a una cena di beneficenza per la sorella e i medici che l’avevano operata erano riusciti a raccogliere novecento euro. Fatna aveva usato quei soldi come anticipo per un terreno in Marocco, terreno che grazie all’Italia non sarebbe rimasto soltanto un sogno realizzato a metà. L’idea le scalda il cuore, la memoria di quanto era stata bene è ancora vivida e alla fine decide di ripartire.

Una volta in Italia viene ospitata da una famiglia marocchina di Ferrara, dove ritrova l’accoglienza di cui si ricordava e che l’aveva convinta a cominciare quest’avventura. Nonostante ciò però, nel periodo che le rimane prima dello scadere del suo visto non riesce a trovare un lavoro e diventa irregolare.
All’inizio Fatna continua a ritenersi fortunata, perché comunque sia è riuscita a entrare in Italia con un passaporto valido. In molti in Marocco solo per ottenere un documento che a noi sembra quasi ovvio sono pronti a tutto, anche a passare sotto i manganelli che le forze dell’ordine non si sprecano a usare.
Inoltre a tanti irregolari capita di rimanere per strada. Ripensa con un brivido malcelato a tutte le brutte storie di donne che ha sentito, che proprio perché donne trovavano difficoltà ancora più forti ad adattarsi a una vita di clandestinità senza tetto. Al contrario a lei è concesso di rimanere a vivere con la famiglia ferrarese, nel caldo abbraccio della loro casa.

Un ambiente interno accogliente che però rimane circondato da un mondo esterno ostile, il quale non tarda a presentarsi alla porta di casa facendola ricredere sulle sue condizioni. Ogni volta che bussano, ogni volta che suonano, Fatna pensa che la polizia l’abbia finalmente trovata e corre a nascondersi con il cuore che le martella in petto. In quei momenti trionfa la paura dell’isolamento, mentre le calde mura di casa diventano improvvisamente una trappola minacciosa che le impedisce la fuga. Ma per andare dove?

Come se non bastasse dopo qualche tempo i familiari rimasti in Marocco cominciano a farsi sentire: le chiedono di inviare dei soldi, perché pensano che lei se la passi bene nella ricca Italia, che possa migliorare le loro condizioni. E lei cosa può dire a loro? Che tutte le fatiche passate non sono servite a niente, che non ha un soldo per lei, figuriamoci per loro e che il sogno di una casa che li teneva in piedi alla fine di una giornata di soprusi era solo una pallida illusione? Presa dal panico, preferisce essere elusiva e mentire: non racconta della sua situazione, garantisce che sta bene e li rassicura che presto i soldi arriveranno. Non vuole ammettere che la verità è un’altra, più difficile da digerire. Forse perché dirlo a loro significherebbe dirlo prima di tutto a sé stessa.

Esce di casa a volte, perché anche se le mura di casa sono protettive, sempre mura sono. Ma la sua immagine di donna islamica, di donna velata, non l’aiuta e il velo diventa solo un altro maledetto muro.
Tempo prima, quando era ancora regolare e speranzosa, aveva trovato un lavoro in una casa come badante per settecento euro al mese: una vittoria alla lotteria per la ragazza, che finalmente riusciva a coricarsi sollevata e tranquilla, pensando a come dividere il futuro guadagno tra lei, la famiglia e il suo piccolo sogno domestico. Cinquecento di quegli euro mensili sarebbero serviti per continuare a pagarlo. Altri cento sarebbero andati alla famiglia. Lei avrebbe vissuto con i rimanenti cento euro al mese, felice per i suoi cari e per avercela fatta.
Una sensazione non dissimile da quella di un giovane precario che dopo tante fatiche raggiunge una tanto agognata autosufficienza. Ed è un sollievo questo difficile da rendere a parole, come sa bene chiunque abbia l’età mia e di Fatna oggigiorno.

La cosa però va a monte. L’anziana signora con cui dovrebbe lavorare, che forse ha visto troppa televisione, appena vede il suo velo non la vuole. O se lo toglie o niente.
Lei non capisce: «Perché devo toglierlo? La mia speranza è trasmettere la mia bontà per ottenere il rispetto dagli altri. Si può raggiungere una convivenza pacifica senza pregiudizi sulla religione».
A quanto pare non è la stessa speranza di chi le sta vicino. Sei velata, quindi o sei irrimediabilmente una terrorista medievale, di quelle di cui scrive la Padania, o sei una prigioniera segregata, di quelle che si vedono in televisione la domenica pomeriggio: togliere il velo, dunque, deve farti sentire libera. Se non è così, se non vuoi, allora sei una terrorista. Semplice, no?
No. Maledetta televisione, maledetti giornaletti, che avete sacrificato la verità umana sull’altare del generalismo e la realtà quotidiana su quello dello share da breaking news. Voi vedete i veli senza vedere i volti e la gente che vi guarda e che vi legge impara a vedere come voi, terribili mitografi che trascinate le persone nel caos ignorante del vostro fallimento.

Anche le altre donne la guardano con freddezza nella quotidianità, perché con freddezza guardano il suo velo che la totalizza, quasi fosse una linea indelebile che la separa nettamente dal mondo. Persino dalla classica solidarietà femminile, che in questi momenti getta la maschera e mostra l’inquietante volto di una solidarietà di razza. Solo con i giovani Fatna riesce a rapportarsi in maniera più normale.
L’umiliazione razzista e discriminatoria nella clandestinità si fa sentire ancora di più perché non le consente di rispondere: tu non sei cittadino, non sei regolare, devi stare zitto. Ti piace il tuo velo? Rimani lì dentro allora, nascosta. Non parlare, non ti voglio sentire. Non mi interessa.

Consapevole dell’importanza della lingua come ponte comunicativo verso quello che spera rimarrà il suo paese ancora per molto, Fatna sta seguendo un corso di italiano, ma se non fosse stato per l’assistenza dell’associazionismo bolognese per lei le cose sarebbero ancora più dure, perché la delusione è stata grande: ha visto che non è tutto così dorato e ricco in Europa e il peso della famiglia si fa sentire sempre di più. Quantomeno gli amici delle associazioni mantengono vivi i residui delle sue speranze di autorealizzazione, salvandola dalla strada.

Questa storia ci dona il volto bello e tragico di una ragazza in cerca di realizzazione, che vede le proprie speranze scontrarsi non tanto con una legge ostracizzante (come nel caso di Ed), ma con un genuino pregiudizio. Si può avercela con lei per il fatto che le sue speranze ci vengano a trovare, ma allora dovremmo avercela anche con un qualsiasi studente americano, inglese, spagnolo o di un’altra città italiana che fa lo stesso. In definitiva dovremmo avercela con tutto il mondo per il semplice fatto di muoversi senza chiederci il permesso: bisognerebbe “pulirsi il culo”, seguendo la profonda metafora dell’ ormai ex ministro della Repubblica Umberto Bossi, con qualche vecchia immagine di Newton.
Ma la nostra rabbia avrebbe effetto unicamente sulle nostre coronarie, mentre sulla nostra società si vedrebbero (come infatti si vedono dalla storia della nostra Fatna) solo i suoi micidiali effetti collaterali: paura, ignoranza e quindi pregiudizio. Parole che hanno trasformato il velo di Fatna in un muro, facendola precipitare nella clandestinità. Fatna non si può vedere: la sua gentilezza, la sua forza e i suoi grandi occhi pieni di vita sfatano il mito televisivo della donna velata. E questo non va bene, perché sfata la comoda pretesa televisiva di poter sapere tutto dal proprio passivo divano da salotto, senza impegnarsi in un dialogo interumano forse più faticoso per le nostre certezze a buon mercato.
Fatna è una ragazza murata da un pregiudizio che però fatalmente mura anche noi che non possiamo vederla, pena la morte del pregiudizio stesso. Lei indossa il velo, ma siamo noi che la muriamo dietro ad esso.

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