Focus NBA: i Miami Heat vincono l’ anello. Secondo della loro storia, primo per James
Alla fine, LeBron. C’ è il marchio di James sul secondo anello della storia di Miami. Una storia relativamente giovane, dato che la franchigia è nata nel 1988. Con buona pace di Wade, chi ne è stato il simbolo (e il miglior giocatore della storia) da quando è arrivato nel 2003, di Bosh, che nella fatidica estate del 2010 si unì ai due più talentuosi compagni sperando di beneficiarne. Grazie a LeBron, ora Battier, Chalmers, Jones, Cole, Turiaf e persino Joel Anthoty possono godersi il loro primo anello. Chiaramente, nonostante sia uno straordinario giocatore, non ci sarebbe riuscito se avesse fatto o avesse provato a fare tutto da solo. Lo hanno aiutato i bagliori di Wade, ancora splendido nonostante gli anni siano ormai 30; Chalmers, che può gloriarsi di aver vinto in quintetto un campionato NCAA e uno NBA, e scusate se è poco; Bosh, che rientrando da un infortunio serio è poi stato decisivo quando contava, siglando ben 24 punti nella gara-5 disputata questa notte; Battier un giocatore difficile da inquadrare in un sistema come quello NBA, dove gli specialisti vengono premiati e gli ibridi ostracizzati, come invece non accade in Europa; e infine il cuore grande di Haslem, l’ unico insieme a Wade che c’ era anche nel 2006, al primo trionfo della storia degli Heat, quello contro Dallas, che l’ anno scorso ha avuto di che prendersi la rivincita. No, non è vero: in realtà un altro reduce c’è.
ERIK IL ROSSO
Nei giorni antecedenti all’ inizio delle Finali, e in quelli successivi a gara-1 (l’ unica sconfitta di Miami nella serie) coach Spoelstra da chi ne capisce e da crede di capirne (due categorie da scindere) era stato aspramente criticato: dicevano che non avesse dato un gioco decente a Miami, che non sapesse allenare, che non potesse dirigere neanche il coro dell’ asilo e altre banalità più o meno assortite. Bene, magia dei risultati, vincendo quattro gare consecutive certe voci sono sparite come per magia. Per carità, non che fossero del tutto infondate: guardando le partite degli Heat ci si accorgeva, quest’ anno, di come le lune in attacco dipendessero da LeBron prima e Wade in seconda battuta. D’ altra parte, in un sistema che fonda il proprio essere sul business e di conseguenza sulla centralità delle stelle che ne illuminano il firmamento, l’ allenatore è una figura di rango inferiore. Sono pochi gli allenatori che sfuggono a questo concetto: Gregg Popovich, Phil Jackson, George Karl, Rick Adelman, Jerry Sloan e, per la nuova generazione, Doc Rivers, Rich Carlisle e Tom Thibodeau. Spoelstra però è stato bravo da un altro punto di vista: non ha soffocato i suoi, li ha lasciati giocare secondo il loro istinti e il loro sentire la partita, chiedendo in cambio una solida mentalità difensiva. Accontentato. Sono stati 85.9 i punti subiti dagli Heat, a fronte dei 97.3 realizzati, e solo 4 volte in 23 incontri di playoff Miami ha subito più di 100 punti. Per la cronaca, la prima di queste è stata nella finale di Conference contro i Celtics. I risultati sono venuti da sé, pur con il progressivo sgretolarsi della concorrenza a causa delle partite compresse in troppo poco tempo e ai conseguenti infortuni. Rose a Chicago, Billups a Los Angeles sponda Clippers, Fernandez e Chandler a Denver, e si potrebbe andare avanti: la stagione, iniziata in ritardo (il giorno di Natale, per chi non lo ricordasse) ha visto molti dei suoi protagonisti appiedati da infortuni anche gravi (il play dei Bulls) causati dal logorio dovuto ai match troppo ravvicinati l’ uno all’ altro (66 in 4 mesi, più altre per chi ha fatto i playoff), e il campionato ne è risultato di conseguenza falsato.
UN ANELLO PER LEBRON JAMES
Ciò non toglie che Miami abbia vinto con merito: ha fatto fuori New York, Indiana, Boston e Oklahoma City in quattro serie significative e bellissime. LeBron ha dimostrato di poter essere Re (soprannome chi si era auto- affibiato) anche in campo, non sono nei proclami. Anzi, quest’ anno si è distinto per la sobrietà, le parole dette (o non dette) quando serviva, e sempre nel rispetto degli avversari. Sembra lontana anni luce la buffonata dell’ imitazione del Nowitzki febbricitante risalente alle Finals 2011, messa su da lui con Wade a rimorchio. A 28 anni, James sembra aver capito che per vincere cosa deve fare e dire, e cosa non deve. E ora la festa è tutta sua.
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