Armonica Festival – Intervista a Christian Fennesz


1922 – 2012: ricorrono quest’anno i 90 anni di Riccione come Comune autonomo.
Per la ricorrenza, il fitto calendario di celebrazioni affianca eventi istituzionali ad appuntamenti culturali e all’avanguardia. È il caso del Riccione TTV Festival (Teatro Televisione Video), l’appuntamento biennale che dal 1985 si dedica al rapporto tra le arti e le
nuove tecnologie, proposto dall’associazione Riccione Teatro e promosso da Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Emilia-Romagna, Provincia di Rimini e Comune di Riccione.
Ad anticiparne l’edizione 2012, prevista per l’autunno, è stata ARMONICA audio visual exhibit, una due giorni dedicata all’interazione tra musica, video e media. Tenutasi lo scorso weekend, il 5 e 6 maggio, al Palazzo dei congressi di Riccione, la manifestazione ha offerto un ricchissimo programma(pdf), fatto di documentari musicali, sonorizzazioni live di film, proiezioni, dj set, concerti.
Il tutto reso possibile anche dalla sinergia di realtà attive sul territorio come Cocoricò Network, Less Conv, Block 60, Margot Records, Workshop e PascucciBio insieme a partner nazionali come roBOt Festival e m2o radio.

Il binomio tra arte visuale e musicale si è concretizzato pienamente con quello che è stato l’ospite – e l’evento – più atteso del festival: Christian Fennesz, uno dei maggiori musicisti nell’ambito dell’elettronica contemporanea, che si è esibito sabato 5 maggio al Cinepalace del Palazzo dei Congressi nella sonorizzazione dal vivo di uno dei massimi capolavori del cinema muto: Berlino. Sinfonia di una grande città (1927), di Walter Ruttmann.

Christian Fennesz, che firma i suoi dischi semplicemente come Fennesz – «all’inizio degli anni ’90, quando debuttai come solista, mi serviva un nome d’arte. E tutti mi dicevano che il mio cognome era già un nome d’arte. Addirittura in America pensavano fossi una band» – ha presenziato alla conferenza stampa di presentazione di ARMONICA, tenutasi presso la Villa Lodi Fè di Riccione il 4 maggio.
Al termine della presentazione, sotto il caldo e ballerino sole primaverile della riviera, Christian Fennesz ha risposto a qualche nostra domanda.

Leggevo nella tua biografia che hai cominciato ad approcciarti alla musica molto presto, suonando la chitarra. Poi da adulto ti sei dedicato alla composizione di musica elettronica. Com’è avvenuta questa evoluzione, e perché hai deciso di mantenere la chitarra, che potremmo considerare uno strumento convenzionale, nella musica elettronica?

Ho iniziato a suonare la chitarra da piccolo, e già allora tentavo di modificarne il suono con il microfono o il mangianastri dei miei genitori, mettendolo dentro la chitarra per ottenere suoni distorti.
Poi da ragazzo ho suonato in gruppi underground abbastanza convenzionali: facevamo punk. Ma ho sempre tentato di trasformare il suono tradizionale della chitarra in qualcos’altro. E solo quando la strumentazione per la musica elettronica è diventata più accessibile a livello economico ho potuto creare i suoni che cercavo.
Perciò è stata una vera e propria evoluzione.

Ma ancora oggi mi piace suonare la chitarra acustica, semplice. Oppure suonare la chitarra acustica e poi aggiungerci suoni elettronici.

Per esempio, qualche giorno fa ero in studio, e siccome la mia ragazza è una grande appassionata di Pink Floyd, abbiamo messo su l’intero “Wish You Were Here” e io ci ho suonato sopra tutti gli assoli di chitarra. Ho fatto lo stesso con “Zuma” di Neil Young.
Quindi riesco ancora a suonare la chitarra nel modo convenzionale.

Dove risiedi e lavori adesso?

Ora vivo a Vienna.
Per 10 anni mi sono diviso tra Parigi e Vienna, anche perché avevo una relazione, finita due anni fa, che mi portava a fare avanti e indietro. Ora invece da un anno sono fermo a Vienna, città che adoro.

La domanda sorge da questa constatazione. Siamo soliti sentire parlare soprattutto di Londra, ma anche di Parigi, quando si fa riferimento a “capitali europee della musica”. Vienna invece rimane in secondo piano, e non ci giungono facilmente notizie a livello artistico-musicale da questa città.
Perciò ti chiedo: com’è la scena musicale viennese?

Non lo so, perché trascorro tanto tempo fuori. Ultimamente sono stato due mesi in Giappone – l’altro paese insieme all’Italia nel quale mi trovo meglio per via dell’accoglienza e dell’ospitalità – e ho passato del tempo a Londra, dove c’è la sede dell’etichetta.

Però so che c’è una scena indie forte, anche elettronica, e soprattutto tanti artisti dell’ improvvisazione.

In ogni caso a Vienna cerco di tenere un profilo basso. Ci lavoro, ma non mi esibisco. Ci suono solo una volta all’anno.

 

Berlino. Sinfonia di una grande città aveva un sonoro originale. Com’era? Come ti sei rapportato con l’originale per la stesura della tua parte musicale?

Il sonoro originale era una tipica composizione da orchestra degli anni ’20. Però secondo me per questo film si adattano bene tantissimi generi e tipi di musica.
Io mi sono basato solo sulle immagini. È un film costruito su sequenze, pattern visivi, e io sono partito esclusivamente da questi per creare la musica. Che non è tanto distante dal mio consueto sound. Però, come sempre succede nella resa live, ho lasciato un po’ di spazio al freestyle e all’improvvisazione, altrimenti mi annoio.
Quindi non ho cercato né avuto un rapporto col sonoro originale.

Quando si parla delle tante collaborazioni che hai avuto, si citano sempre e a buon diritto David Sylvian e Ryuichi Sakamoto, con i quali tu stesso prima hai confidato di avere un bellissimo rapporto – «sono stati loro a chiedermi di lavorare insieme. Con Ryuichi e David si è instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia: ci sentiamo, ci scambiamo musica, e ogni volta che David fa un nuovo album il primo lo manda a me, e viceversa. Ryuichi mi ha chiesto di partecipare come chitarrista al tour americano della Yellow Magic Orchestra l’anno scorso, passato anche dall’Hollywood Bowl di Los Angeles: è stato molto bello».

A me ha colpito soprattutto la collaborazione con gli Sparklehorse.

Quella con gli Sparklehorse è stata una storia lunga.
Io e Mark eravamo profondamente amici, come fratelli. Abbiamo passato molti mesi insieme in North Carolina a comporre e lavorare, poi Mark si è tolto la vita con un mitra, e la cosa mi ha scosso profondamente. Tutt’ora faccio fatica a riascoltare i pezzi di quel periodo.
Avevamo la stessa età, la stessa altezza, la stessa strumentazione, qualche volta le stesse donne: lui era il mio equivalente americano. Un americano del sud, un gentiluomo.
E specularmente, io ero la sua versione europea.
Poi parlava sempre a voce bassa, era calmo e silenzioso: non sembrava neppure americano.

È stata una collaborazione bellissima.
Avevamo in progetto una nuovo lavoro insieme prima che morisse, infatti avevamo già cominciato a registrare. Ma parlando con Scott, il batterista degli Sparklehorse, abbiamo deciso di non pubblicare quelle registrazioni.
Probabilmente molti altri avrebbero rilasciato quei brani, perché il mondo del business è così.
Ma noi no, non potevamo. Non ci riuscivo.

Saltando dal passato al futuro, Christian Fennesz è pronto con un nuovo album, una soundtrack scritta per un film girato in Giappone da un registra australiano, che uscirà all’inizio dell’estate; inoltre ha appena concluso un album di remix per Apparat, e durante l’estate lavorerà sul suo prossimo disco solista, che vede la collaborazione anche di Mike Patton.
È indaffarato.

 

Un ringraziamento speciale ad Alex Monogawa per il supporto, e a Esther per le traduzioni.

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