Romagna e sangiovese: Cosa Nostra al Nord


È notizia di questi giorni la scomparsa del boss Gerlando Alberti, nella sua abitazione  a Palermo (dove si trovava per gli arresti domiciliari). Muore dunque a 84 anni uno dei boss più noti a livello nazionale e soprattutto a Milano, luogo dove si trasferì già nel 1961 e centro delle sue future attività. Ai tempi gli affari di Cosa Nostra non avevano ancora fatto quel salto di qualità che l’avrebbero portata alla ribalta internazionale nei decenni successivi per i delitti eccellenti e il traffico di stupefacenti. Alberti si sistema comodamente nel milanese, iniziando pian piano dal traffico e contrabbando di sigarette. Successivamente diventa un “cavallo” dei più importanti boss di Cosa Nostra di allora, nomi del calibro di Gaetano Fidanzati e Gaetano Corollo. L’affare principale è – manco a dirlo – il narcotraffico. Anni d’oro per la mafia siciliana e per Gerlando Alberti stesso, “Zu Paccarè”, considerato ormai un pioniere dei siciliani nella città lombarda (anni dopo qualcuno avrebbe sostenuto categoricamente che “la mafia a Milano non esiste”). Alberti verrà poi arrestato nel 1983 e riuscirà a sopravvivere a diversi tentati omicidi in carcere su mandato di Totò Riina, rappresentando ormai la vecchia mafia, perdente, facente capo a Gaetano Badalamenti.

Fine anni ’70-anni ’80, un periodo da tenere bene in considerazione poiché rappresenta di fatto l’inizio del boom del consumo di stupefacenti in tutta Italia (e non solo), motivazione sufficiente e ovvia per la quale Cosa Nostra ne fa il proprio lucroso principale affare tessendo affari su ogni possibile rotta internazionale. Per inciso, nello stesso periodo cominciano ad affacciarsi prepotentemente a livello nazionale anche le altre due mafie cosiddette tradizionali, camorra e ‘ndrangheta. La prima sfruttando le condizioni favorevoli in seguito al terremoto in Irpinia, la seconda tramite i sequestri di persona, il giro di affari e conoscenze attorno alla costruzione della Salerno-Reggio Calabria e il centro siderurgico della Piana di Gioia Tauro. Fine anni ’70, si è detto. Punto nevralgico è il capoluogo meneghino. È Milano, secondo i giudici estensori delle centinaia di processi che occuperanno i tavoli dei magistrati nei vent’anni successivi, il deposito principale di tutta la droga che verrà poi distribuita in quantità sempre minori in tutto il resto del Nord-Italia. La ricca Emilia-Romagna sarà uno dei luoghi principali.

Tradizionalmente considerata una regione ricca, piena di occasioni imprenditoriali e di un vivace mercato del divertimento, specie in Riviera, l’Emilia-Romagna si prestava (e si presta tutt’ora) a rappresentare una meta privilegiata per il traffico di droga di ogni tipo. Sissignori, non si fanno sconti o preferenze: cocaina, eroina all’inizio, ma all’apertura dei mercati e delle frontiere dell’Est arriverà tutto il “listino” offerto dalle mafie balcaniche e turche. Ad ogni modo, Gerlando Alberti aveva in regione i propri fidati luogotenenti, alcuni ben noti alle forze dell’ordine, tra cui Francesco Scaglione (soggiornato obbligato a Massa Lombarda, in provincia di Ravenna), Oscar Valli e Nino Lo Iacono. Il primo era stato arrestato non una ma ben tre volte (’80, ’82 e ’84) per traffico di droga, il secondo era latitante da Palermo. In Romagna i tre si occupavano di stoccare e smerciare gli enormi quantitativi di droga proveniente dai depositi milanesi, sempre per conto dell’Alberti.

Certo è che negli anni ’80 per la Riviera romagnola era possibile trovare decine e decine di pregiudicati proveniente da ambiente malavitoso e più specificamente mafioso. Piano piano arrivarono i pugliesi, i camorristi e gli ‘ndranghetisti, utilizzando la Riviera come crocevia dei propri affari, che ora spaziava anche attorno al lucroso settore del gioco d’azzardo. Sulle bische vi era infatti il controllo totale del boss catanese Angelo Epaminonda detto il “Tebano”, di stanza a Milano.

Ora, su questo andirivieni di mafiosi e mafiosetti si è parlato e scritto a lungo. È ormai ben noto che la maggior parte di questi soggetti arrivò in via coatta in regione a causa di uno sciagurato provvedimento, il cosiddetto soggiorno obbligato (poi “speciale”) previsto da una legge del ’56 destinata ai soggettisocialmente pericolosi”.  Allora non era infatti ancora presente una definizione normativa di mafia – sarebbe arrivata solo nell’82 – né una consapevolezza diffusa del problema o di come trattarlo. Con il soggiorno obbligato centinaia e centinaia di mafiosi raggiunsero le regioni settentrionali, ove si insediarono e cominciarono a tessere nuove amicizie ed affari. Il calcolo legislativo e politico di “allontanarli dal loro originario centro d’affari” era ovviamente sbagliato e gli effetti disastrosi furono successivamente sotto gli occhi di tutti. Mafiosi della caratura di Gaetano Badalamenti e Giacomo Riina furono lasciati liberi di intraprendere nuove avventure criminose, magari con maggiori libertà di prima. Non si tratta tuttavia di criminalizzare un’intera classe politica cieca al problema, poiché ripetutamente i sindaci di Sassuolo e Cattolica lanciarono appelli alle istituzioni nazionali, denunciando l’allarmante situazione in cui si trovavano.

Ciò che importa – e probabilmente non è stato tenuto realmente in considerazione – sono tre fondamentali aspetti:
1) Ad un certo punto i mafiosi cominciarono ad arrivare in regione volontariamente. E in tale ottica decisero che l’Emilia-Romagna doveva continuare ad essere un importante centro nevralgico per le proprie attività criminali (figurarsi, allora non dovevano nemmeno scomodarsi fino a San Marino, era sufficiente lavorare in Riviera!). Per anni si è erroneamente sostenuto che la loro presenza fosse dovuta esclusivamente al soggiorno obbligato, senza voglia di indagare più a fondo sui reali motivi che portava qui determinati soggetti.

2) Follow the money. La lezione principale di Giovanni Falcone non è stata affatto interiorizzata. Altrimenti avremmo capito tutti, dal primo all’ultimo, il percorso che faceva il denaro mafioso. Prima nelle loro mani, poi tramite insospettabili prestanome, riciclati perfettamente in attività lecite. Nel caso della Riviera, alberghi, ristoranti, sale bingo. Denaro pulito et voilà.

3) Proprio sui prestanome e sugli intermediari è calato definitivamente il silenzio. Poco e nulla si è detto sui cosiddetti white collars, uomini cerniera (utilizzando le parole dello storico Enzo Ciconte) o come preferite voi. Soggetti che hanno permesso una più capillare mimetizzazione e rapida destinazione al riciclaggio dei proventi illeciti mafiosi. Poco si è detto, ma più avanti sarebbero stati noti a tutti i nomi: uno di questi era indubbiamente Livio Collina, bolognese di nascita e guarda caso venuto a patti con Giacomo Riina, Gaetano Fidanzati e Francesco Scaglione, la cosiddetta “mafia perdente” di cui si è scritto in precedenza. Un problema di sottovalutazione? Di cultura? Di sensibilità? Non è semplice trovare una conclusione soddisfacente, fatto sta che nei decenni successivi avremo atti pieni di soggetti autoctoni, giudicati non solamente “collaboratori” dei mafiosi meridionali ma pienamente inseriti nell’organico dell’associazione. I professionisti venuti a patti coi Casalesi in Emilia ne sono un valido esempio, così come Felice Maniero e la Mala del Brenta in Veneto. Rimanendo in Romagna possiamo vantare un’altra serie di fantastici “cavalli” come Gabriele Guerra (Cervia), Marco Menghi (Cattolica) e Bruno Platone, cattolichino anch’esso, coinvolto nelle ultime due importanti indagini per mafia tra Rimini, Campania e San Marino.

Di insospettabili professionisti in affari con le mafie, la Riviera è piena. Basti solo pensare al ruolo avuto da numerosi imprenditori (Prosperi e Pelliccioni) e avvocati (Livio Bacciocchi) tramite gli strumenti bancari e della finanza moderna. È pur vero che le indagini sono ancora in corso, ma le intercettazioni parlano chiaro. In particolare, il nome di Bacciocchi salta fuori in ben tre operazioni.

Un esempio – forse il più importante – è infine fornito dalla vicenda che ha visto coinvolti i manager di uno dei più importanti gruppi imprenditoriale del Paese: è storia accertata (ma forse non ancora molto nota ai più) quella che vide i manager della Calcestruzzi, impresa del Gruppo Ferruzzi del ravennate Raul Gardini, mettere a disposizione dei più rinomati boss mafiosi (Totò Riina, Buscemi e Angelo Siino in primis) i propri mezzi, economici e non solo. Scrissero i giudici estensori: «Allo stato delle indagini non è dato conoscere, con assoluta precisione se vi sia stata una molla scatenante che abbia indotto i maggiori rappresentanti di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti del nostro paese a mettere totalmente e del tutto consapevolmente a disposizione dipericolosissimi esponenti di Cosa Nostra la loro struttura, il credito acquisito presso il sistema bancario ed il loro prestigio, oppure se considerazioni di ordine economico e di puro profitto abbiano finito per prevalere su tutto».
Per questi fatti arrivarono infine numerose condanne, divenute irrevocabili, nei confronti delle alte sfere di tutto il Gruppo Ferruzzi.

Come potete vedere lo schema è ben oliato, ma tendenzialmente vecchio.
Qualcosa di nuovo tuttavia c’è: con il tempo sono sempre più gli stessi autoctoni ad essere vittima di estorsione (dati confermati dalle ultime relazioni semestrali della Dia e da Sos Impresa), sostituendosi prepotentemente alle vittime di un tempo, nella maggior parte imprenditori e commercianti provenienti dalle stesse zone dei mafiosi estorsori.

Sembra apparentemente un percorso tortuoso e disarticolato, senza un filo conduttore: mostra all’opposto quanto possano essere legati tra loro nomi, traffici e luoghi di mafia. Vecchi schemi che ritornano, nomi che rimbalzano (come accaduto nell’indagine “Criminal Minds” di qualche settimana fa) e nonostante ciò vi è ancora una resistenza diffusa nel denunciare un tessuto sociale e culturale così poco ostinato a respingere le ingerenze della criminalità organizzata. A sostenere che vi sia un nutrito numero di professionisti autoctoni alla disponibilità delle mafie. Abbiamo tuttavia un “pregio”: attualmente la politica e le pubbliche amministrazioni nostrane non risultano contaminate o in affari con il mondo della criminalità organizzata (a differenza di altrove – Liguria e Lombardia – dove i consigli comunali sciolti per mafia la dicono lunga sul grado di condizionamento e pervasività raggiunto). Anzi, dopo anni di incomprensibile indifferenza – se non opposizione – si colgono alcuni apprezzabili segni di una particolare sensibilità al problema delle infiltrazioni mafiose, indice che deve rappresentare un’ulteriore spinta per superare definitivamente il vecchio e reiterato leit-motiv secondo il quale “parlare di mafia danneggia il turismo”,  che al momento in alcuni ambienti sembra tuttavia recuperato e reinterpretato in una chiave analoga: “Non ci stiamo a dare dei mafiosi alla nostra gente, i romagnoli non sono mafiosi”.
Ma a sfatare questo falso mito, come vedete, basta ben poco.

Patrick Wild

 

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