Il codice dell’anima
Chi siamo?
Dove andiamo?
Alla prima domanda potremmo rispondere con nome cognome, luogo e data di nascita, residenza ecc…
I dati della carta d’identità insomma.
Ok, fino a qui è semplice. Ma già il secondo quesito richiede più riflessione. Si potrebbe iniziare con il dire: «Studio per diventare…, lavoro, ecc.», o più probabilmente non si hanno idee di dove si voglia andare, di cosa davvero ci sentiamo di fare nella vita. Forse nemmeno si sa cosa voglia dire la seconda domanda.
Gran parte delle persone diventa una semplice rotella del sistema moderno: lavoro, casa, famiglia, studio, shopping, vacanze. Molti altri, invece, continuano a cercare qualcosa, sentendosi insoddisfatti se non viene trovato.
Ma cos’è questo qualcosa?! E cosa vuol dire esattamente dove andiamo?!
Quello che entra in gioco qui è il concetto di vocazione. Termine che non ha a che fare per forza con il sociale, con l’aiutare il prossimo. Altrimenti meglio andare a far pratica subito con esperienze di carità! La vocazione è qualcosa che puoi fare, che ti riesce bene con poche difficoltà. Qualcosa che ti da un posto nel mondo e che ovviamente ti piace fare. Ed è quello che deve essere seguito perché ce l’hai dentro. E’ assolutamente autodistruttivo fare ciò per cui non siamo portati. Bisognerebbe imparare a vivere smettendo di pensare che, per forza, si debba portare una croce pesante sulle spalle. Una croce intesa come sacrificio che porta a toccare l’autolesionismo. Vivere non è soffrire, vivere non è fare qualsiasi tipo di lavoro o qualsiasi tipo di studio che pensi diano un guadagno sicuro. Senza però essere soddisfatti della propria esistenza.
Iniziamo allora a concepire in modo diverso l’immagine di vivere con la croce sulle spalle. Immaginiamola come un evolversi nello spirito, arrivando a riconoscere la propria sacralità. Riconoscimento che avviene proprio nel momento in cui, guarda caso, seguiamo la nostra vocazione. Poiché è con essa che ci sentiamo parte integrante del mondo. Ed è solo attraverso essa che riusciamo a superare anche le difficoltà senza soccombere, ma diventando più forti di prima.
James Hillman spiega come fare, partendo dal mito di Er di Platone. Questo famigerato psicologo junghiano, morto il mese scorso, parla dell’esistenza di un “Daimon” per ciascuno di noi. Possiamo immaginarlo come un compagno che ci guida sulla terra, associato alla nostra anima prima della nascita. Ed è lui il portatore del nostro destino, è lui che ci spinge verso il disegno finale a cui sentiamo di essere attirati. Anche se non sappiamo precisamente quale sia.
Quello che si deve fare è allora seguire quello che ci rende felici, che ci dà uno scossa sulla schiena nel momento in cui lo stiamo facendo. Ed lì infatti che percepiamo di essere nel posto giusto, al momento giusto. Bisogna incominciare anche a smettere di sentirsi vittime di un destino crudele, di una famiglia che sentiamo troppo distante da noi, o di un ambiente che non ci appartiene. Tutto questo deve essere invece letto come una forza centrifuga che spinge ciascuno di noi ad affermare la propria differenza, in modo competitivo.
Fu Plotino a dire che siamo stati noi ad esserci scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti alla sua necessità. Ma molti replicherebbero:«Io non mi sono scelto di aver il naso storto, le gambe corte, di essere ammalato..!» No, tu no forse, ma qualcuno o qualcos’altro sì!
Ci si può quindi rassegnare a questa natura cattiva, oppure provare a credere alla teoria freudiana. La quale sostiene che le debolezze iniziali saranno trasformate non semplicemente in punti di forza, bensì in prodotti dell’arte e della cultura. Date un’occhiata alla storia e ai personaggi celebri per crederci, oppure leggete il “Codice dell’anima” di Hillman!
Detto questo, meglio non cascare nell’illusione che la vita sia un’esistenza eroica. Un’esistenza nella quale si deve solo combattere, aggredire, distruggere gli ostacoli, altrimenti sarai l’unico a restare indietro e verrai calpestato dagli altri. Ma si deve stare attenti a non cascare nemmeno nel fatalismo, che non c’entra niente con il fato vero e proprio. Esso è credere sempre che quello che accade, accade per un motivo preciso, scritto nelle stelle! Il fato causa gli eventi insoliti, il fatalismo invece è l’illusione che ogni singolo fatto sia parte di un progetto superiore, a noi sconosciuto. Quindi se una cosa che amiamo è andata a cattivo termine, non significa che per quella cosa io non sono portato. Ragionare così, non solo è un non ragionare, ma è un cadere in trappola al fatalismo. Quello che accade e che ci turba profondamente deve essere analizzato, richiede quindi responsabilità. Per poi ripartire verso il proprio scopo, con una consapevolezza in più. E lo scopo si presenta come un’urgenza indefinita, che turba e che sembra di estrema importanza.
Riepilogando per rispettare la propria vocazione bisogna: accettare di fare parte del proprio albero genealogico, così come è, anche con i suoi rami marci; abitare in un luogo adatto alla propria anima e che ti leghi a sé con doveri e usanze; restituire con gesti le cose che l’ambiente ti ha dato, dichiarando il pieno attaccamento al mondo (la gratitudine). Questo dice Hillman.
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